Domenica, 28 Aprile 2013 | Scritto da: didattica

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MODERNITÀ (IN) FOLLE

Sabato 11 maggio le sale del Museo Arti e mestieri di un tempo di Cisterna, in collaborazione con l’AIMC di Asti e il gruppo Oron Oronta, hanno ospitato un incontro filosofico sul tema della modernità e le sue implicazioni.

I relatori hanno analizzato questa condizione in cui si trova l’uomo moderno secondo parametri ed aspetti differenti.

Eliana Tosoni ha esposto un intervento intorno al linguaggio e alla comunicazione, definita attraverso l’immagine di “una parola gettata a qualcuno”, che instaura un legame tra parlanti e mette in gioco la libertà reciproca, è un processo che non ha un esito predeterminato. La lingua è ciò all’interno di cui la comunità pone i suoi limiti, Martin Heidegger afferma che la lingua vivente è la direzione di ciascuno di noi, il futuro, come un sentiero tracciato da percorrere.

La lingua però è stata spesso manipolata, soprattutto nei totalitarismi del Novecento, ne sono esempi emblematici “1984” di Orwell e “LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo” di Victor Klemperer. Quest’ultimo era un filologo ebreo che rischiò di finire in un campo di concentramento, ma scampò il pericolo grazie alla moglie ariana. Nella sua opera Klemperer descrive le tappe che hanno condotto a quel legame tra parlanti, diventato poi aggressivo e violento, allo stesso tempo vuoto e comico. È una lingua articolata perlopiù da formule, ripetute fino a diventare la verità, la realtà. Un capitolo è dedicato ai segni d’interpunzione, i dotti prediligevano l’uso del punto e virgola; la lingua del nazismo preferiva soprattutto le virgolette ironiche utilizzate fino alla nausea; ad esempio nelle citazioni servivano per metterne in dubbio la veridicità, per capire quest’uso denigratorio Churchill e Roosvelt era definiti “statisti”(tra virgolette appunto), così come Einstein “scienziato”. Nella lingua nazista si osserva anche una sovrabbondanza di superlativi assoluti, da cui emerge un uso e abuso di numeri, mentre la quantità prevale a scapito della qualità. Nella postfazione dell’opera Klemperer spiega che cosa lo ha spinto a pubblicare il materiale scritto in dodici anni. A guerra finita, l’autore è sfollato in un villaggio della Baviera ed incontra un’operaia berlinese con la figlioletta che era stata in carcere per aver pronunciato delle parole contro il Führer; ciò lo porta a dare il suo manoscritto alle stampe: è un libro nato non tanto per vanità, ma per delle parole.

Un altro testo di riferimento è quello di Uwe Porksen “Parole di plastica. La neolingua di una dittatura internazionale”, saggio del 1988 in cui si evidenzia come una trentina di vocaboli entrati nell’uso quotidiano siano diventati stereotipi (sessualità, comunicazione, sistema, relazione, sviluppo): sono parole amebe che assumono forme diverse a seconda delle intenzioni del parlante. Sono state requisite dal mondo della scienza, dove avevano precisi significati scientifici, mentre nel linguaggio comune hanno perso la loro forza, assumendo una funzione connotativa e non denotativa. Sono metafore, sinonimi, hanno maggior estensione e minor contenuto, sono molto generiche e suscitano l’impressione di colmare lacune, invece generano bisogno. Questo linguaggio ameba evoca una memoria abitudine, meno immaginifica, fondata su una lingua impoverita. Nella distruzione del linguaggio sta la premessa di ogni altra distruzione. Klemperer ammonisce a non rinunciare mai alla vigilanza né a modificare il corso delle cose né a renderlo meno terribile.

Bauman parla di Alessitimia: la disperazione è diventata incapace di nominare il suo oggetto, se mancano le parole per esprimere questa disperazione, sembra crearsi una spirale di silenzio in cui mancano parole sensate.

Siamo nell’epoca dei post-; più che un dopo implica una mancanza, quella di esercitare un principio di criticità. Non ci sono categorie di pensiero, parole a cui appellarci, sono pilastri in cui trovar sostegno.

Marcello Furiani ha esordito parlando del Dies irae, una sequenza in lingua latina, molto famosa, attribuita dubitativamente a Tommaso da Celano. Sono in molti a ritenerla una composizione poetica medievale tra le più riuscite. Descrive il giorno del giudizio, l’ultima tromba che raccoglie le anime davanti al trono di Dio, dove i buoni saranno salvati e i cattivi condannati al fuoco eterno. Il Dies irae è una delle parti più note del requiem e quindi del rito per la messa esequiale previsto dalla liturgia per la messa di rito tridentino.

Il riferimento quest’opera è servito al relatore per delineare una diagnosi e un’analisi del mondo moderno.

Ernesto De Martino ne “La fine del mondo” interpreta la fine delle società occidentali: è un’apocalittica senza speranze.

Quando si parla di modernità si parla di crisi, impossibilità di comprendere e quindi capire, è crisi della ragione, manca un criterio di guida condiviso. C’è una percezione malinconica della modernità, Bauman paragona l’insicurezza odierna a quella dei passeggeri di un aereo che scoprono che la cabina di pilotaggio è vuota.

Rocco Ronchi sostiene “noi siamo coloro che vengono dopo il moderno”, riprendendo la celebre metafora hegeliana è una “notte nera in cui tutti sono neri”. Nel saggio “Parmenide e Giona: quattro studi sul rapporto tra filosofia e mitologia” Klaus Heinrich sottolinea pretesa della ragione di dominare il mito. Nella modernità i miti sono diventati di cartapesta, domestici, come dei cocker. Tutto è ridotto alla misura del denaro, tutto diventa risarcibile.

C’è un profluvio, alluvione di post; noi siamo quelli che veniamo dopo, nell’antica Roma postumo era il figlio che veniva dopo la morte del padre. Venire dopo la morte del padre vuol dire essere la traccia della sua assenza; viene meno ogni figura di eredità, il presente è solitario. Rimane un guscio vuoto. La catastrofe, per Furiani è già avvenuta.

A chiudere la giornata sono state le riflessioni di Alberto Banaudi, per il quale la modernità è un argomento pressante, urgente e siccome la viviamo è gravoso parlarne e disegnarne una mappa. Per parlare di questa condizione di potrebbe cominciare dalla tv, anche se ormai risulta un mezzo superato. La televisione è una sorta di panopticon rovesciato, un carcere a 360° ideato da Bentham, dove un solo guardiano vede tutti e tutti vedono un solo guardiano. Banaudi si è poi posto una domanda: perché stanno trionfando i talent show?(X Factor o Amici). Si tratta di una comunicazione aggressiva, chi vince entra per merito nel circuito televisivo in tutte le sue forme, mentre sappiamo che chi è ai vertici non ha alcun merito.

Se non dalla televisione si può iniziare dalla lingua; negli anni ’70 prevaleva come intercalare il cioè, oggi il piuttosto che, la lingua si adegua alla contemporaneità, non è più possibile decidere nulla in modo irrevocabile. Non ci si radica in nessuna identità è un’identità liquida.

Trasmigrati da un paradigma dell’essere, dove lo scopo era la realizzazione dell’umano, a un paradigma del divenire, privo di senso, in cui ci si muove velocemente ma senza uno scopo, oggi misuriamo la confusione tra mezzo e fine, in cui i mezzi sono diventati fini e hanno l’unico scopo di incrementare la propria potenza (denaro, tecnica, potere).

C’è il divenire, ma non un avvenire, si passa da un presente ad un altro presente, Hobbes definiva la felicità “un progresso impedito il meno possibile verso fini sempre ulteriori”. Leibniz aveva intuito che saremmo diventati monadi con un continuo passaggio da una percezione ad un’altra. Siamo nella condizione del divenire per sempre.

Alcuni versi della celebre poesia di T.S.Eliot ”La rocca”(1934) hanno chiuso il convegno e magistralmente indicato quale sia la condizione dell’uomo post moderno:

Si leva a volo l’Aquila alla sommità del Cielo;
Il Cacciatore coi cani segue il suo percorso.
O rivoluzione perpetua di stelle configurate,
O ricorrenza perpetua di stagioni determinate,
O mondo di primavera e d’autunno, di nascita e di morte!
Il ciclo senza fine dell’idea e dell’azione,
L’invenzione infinita, l’esperimento infinito,
Portano conoscenza del moto, non dell’immobilità;
Conoscenza del linguaggio, ma non del silenzio;
Conoscenza delle parole, e ignoranza del Verbo.
Tutta la nostra conoscenza ci porta più vicini alla nostra ignoranza,
Tutta la nostra ignoranza ci porta più vicino alla morte.
Ma più vicino alla morte non più vicini a DIO.
Dov’è la Vita che abbiamo perduto vivendo?
Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo?
Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?
I cicli del Cielo in venti secoli
Ci portano più lontani da DIO e più vicini alla Polvere.

Ognuno di noi deve recuperare la propria capacità critica, non conformarsi ad una modernità che, esattamente come un’auto in folle, ha perso la capacità di controllo, nella convinzione che un progresso senza fine né limiti porti ad un dominio assoluto, senza rendersi conto che in tal modo ci si avvicina sempre di più alla polvere e si perde l’essenza umana.

Elena Cerruti

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