”TORO: UN VIAGGIO NEL PASSATO CON GLI OCCHI RIVOLTI AL DOMANI”
11^ INCONTRO POLO CITTATTIVA PER L’ASTIGIANO E L’ALBESE PER L’A.S. ‘14/’15
La documentazione audio dell’incontro alla pagina:http://www.scuolealmuseo.it/registrazioni/rabinoegandolfo_genn15.mp3
Don Rabino, un uomo che ha scelto la Chiesa perché, in primo luogo, ama il suo prossimo e Beppe Gandolfo, giornalista torinese, uniti dalla passione comune per qualcosa che non è solo una squadra ma un modo di vedere il mondo: il Toro. Due persone speciali che, nel pomeriggio di sabato 24 gennaio 2015, hanno saputo raccontare che lo sport, quello vero, è vita. L’incontro
dal titolo ”Toro: un viaggio nel passato con gli occhi rivolti al domani”, si è tenuto presso il teatrino parrocchiale “Beppe Olivetti” di Cisterna d’Asti ed è stato organizzato dal Polo Cittattiva per l’Astigiano e l’Albese, il Cisterna Calcio, il Museo Arti e Mestieri di un Tempo, le Parrocchie di Cisterna d’Asti e di Valle S. Matteo. L’iniziativa si è resa possibile grazie al grande contributo di Marisa Garavello (ex allieva di Don Rabino e prima volontaria del Centro di Maen in Valle d’Aosta) e Piero Lano che, da anni, conosce il sacerdote. Ad introdurre il pomeriggio, per l’appunto, Piero Lano che ha portato i saluti degli organizzatori ed ha ricordato ai presenti il recente conferimento della cittadinanza onoraria di Torino a don Rabino.
Subito dopo ha preso la parola Beppe Gandolfo che ha brevemente tratteggiato la storia di un percorso. Già in gioventù, giocando a pallacanestro in oratorio, ha modo di conoscere don Rabino e per molto tempo lo corteggia per convincerlo a scrivere un libro sul Torino. Il pressing dà il risultato sperato con il ritorno della squadra in serie A: don Rabino, finalmente, accetta e nasce un libro di grandissimo successo editoriale “Il mio Toro, la mia missione” (edito da Priuli & Verluca), vincitore del Premio Selezione Bancarella Sport. Successivamente viene dato alle stampe, con lo stesso editore, “Il Toro che vorrei”, libro dei sogni su una squadra ideale. Tutti i proventi della vendita dei libri vengono devoluti per le missioni fondate da don Rabino. Il Toro è l’unica squadra con un padre spirituale. Da circa 43 anni è don Rabino un uomo, un sacerdote che racchiude dentro di sé tante storie. La prima è quella di un bimbo di nome Aldo, rimasto orfano in tenerissima età di padre. Da ragazzo è una promessa del calcio, viene contattato da squadre come il Toro e la Juve ma la sua vocazione è un’altra e diventa salesiano. Parte subito per il Brasile, nel Mato Grosso, dove è testimone della morte di molti bambini a causa delle malattie e della mancanza di cibo. Decide allora di dedicare tutta la sua vita alle missioni con l’aiuto di circa 500 volontari. Fonda l’Associazione Oasi (Ora Amici Sempre Insieme) e, proprio in Brasile, riesce nell’intento di costruire un grande ospedale per i lebbrosi. Intanto nel 1971, sostituisce don Ferraudo come padre spirituale del Torino, una squadra che non racconta solo vittorie ma anche dolori e sconfitte, un po’ come la vita di molta gente comune ed è per questo che entra nel cuore delle persone. Dopo questa presentazione, don Aldo ha voluto in primo luogo ricordare Beppe Olivetti proprio all’interno del teatrino che porta il suo nome. Infatti, negli anni Sessanta Beppe è stato uno dei primi volontari. Purtroppo, nel 1996, scompare tragicamente durante un campo/lavoro al quale partecipa come volontario. Ma il suo esempio continua ora con i familiari, in particolar modo con la figlia Fiorella che, da anni, vive con la famiglia in una missione in Perù. Rispetto alla cittadinanza onoraria don Aldo ha chiarito, essendo nato a Torino, di ritenere che sia un riconoscimento per tutti coloro che negli anni hanno lavorato con lui per servire il prossimo. Infatti non basta un eroe in campo ma serve tutta una squadra per giungere ad un risultato. Ed è proprio questo che dovrebbe insegnare lo sport: il senso del gruppo, della fatica e dello sforzo. Fare il padre spirituale di una squadra, vuol dire aiutare i ragazzi a riflettere, aiutarli a stare insieme, vuol dire celebrare battesimi, matrimoni, gioire insieme per le vittorie ma non abbandonare nessuno specialmente dopo le sconfitte. Il Toro è proprio questo e, per capirlo, bisogna andare in pellegrinaggio a Superga dove, ancora oggi, si recano a piedi ogni anno migliaia di persone. Tifare Toro vuol dire amare la vita, le persone, conoscere il gusto amaro dei fallimenti ma avere la forza di rialzarsi. Al contrario, spesso, lo sport e il calcio in particolare, sono solo una fabbrica di soldi, totalmente disinteressata agli uomini e ai loro destini. Invece tifare Toro, ancora oggi, è un’espressione di vita che insegna a stare con i ragazzi. Infatti il calcio può essere uno strumento per veicolare messaggi positivi come quello dello sport vero dove si può anche perdere senza per questo sentirsi dei falliti. Purtroppo il problema sono gli adulti, sempre più spesso i genitori, che aspirano ad avere figli campioni che non conoscono la sconfitta, superstar del futuro, ricche ed egoiste. Sono quasi scomparsi, se non nei piccoli centri, i bambini che corrono dietro ad un pallone in un campetto sgangherato, solo per il gusto di farlo e senza troppe responsabilità. Ciò che manca sono adulti autorevoli, consapevoli e capaci, di dare regole chiare che essi stessi rispettano in prima persona dando il buon esempio. Lo sport è uno strumento perfetto che potrebbe portare lontano e dovrebbe offrire esempi positivi. Invece creano clamore solo le notizie peggiori, magari tendenziose. Negativi sono anche i guadagni eccessivi che lanciano messaggi falsi rispetto ai veri valori della vita. Nonostante ciò, per far passare altri modelli, è necessario scendere in questo campo e battersi per cambiare le cose ma anche per far conoscere la ricchezza umana che si annida nei ragazzi di ogni squadra e che rischia di rimanere ignorata. Pertanto, rispondendo alla domanda di Galdolfo, don Aldo ha sottolineato che fare il cappellano di una squadra vuol dire proprio questo: tirare fuori le migliori risorse umane dai ragazzi, sostenere coloro che sono lontani dal loro Paese d’origine per aiutarli ad ambientarsi e far comprendere loro che quella che stanno vivendo è in primo luogo una grande esperienza di vita che li cambierà per sempre come persone, ammesso che sappiano approfittare e comprendere immensità umana che li circonda. Oggi, infatti, l’Europa teme la “minaccia islamica” ma, probabilmente, il timore dovrebbe arrivare dalla spaventosa solitudine che si annida nelle nostre società (e di cui aveva anche parlato don Marco Gallo in un precedente incontro). Il benessere ha spento in molti la ricerca dell’altro che è stata soppiantata da mille aggeggi e tecnologie. Si sta rinunciando a vivere, ad uscire nelle piazze per ritrovarsi soli in un mondo virtuale. Lo sport è una delle ultime spiagge che consente di aggregare i ragazzi. Ma cosa vuol dire oggi per un ragazzo di oggi tifare Toro? Per Beppe Gandolfo vuol dire capire che non sempre si riesce ad essere i primi nonostante l’impegno ma anche saper godere di una vittoria con la consapevolezza di far parte di una storia più grande. Invece un tempo, secondo don Rabino, tifare Toro voleva dire ripartire con tenacia dopo la guerra, avere la forza di risollevarsi e coltivare un sogno. Ma ancora oggi tifare per questa squadra vuol dire avere delle radici ben salde che non vengono sradicate dal primo scudetto perso e, soprattutto, significa stare dalla parte dei più poveri, di chi fa fatica.
E chissà – come ha detto don Rabino - forse anche S. Giovanni Bosco sarà stato torinista e, quasi sicuramente, lo sarà Papa Francesco perché, anche attraverso lo sport e l’appartenenza ad una squadra, si possono coltivare il gusto della vita e l’amore per il prossimo. In fondo, i tifosi torinisti sono come quel Wile Coyote della canzone di Finardi “… che cade ma non molla mai/ che fa progetti strampalati e troppo complicati/ e quel Bip Bip lui non lo prenderà mai./Ma siamo tutti come Wile Coyote/che ci ficchiamo sempre nei guai/ci può cadere il mondo addosso/ finire sotto un masso ma non ci arrenderemo mai…”.