“RESISTENZA CIVILE: TANTE FORME DI OPPOSIZIONE, SETTANT’ANNI PER COMPRENDERE”
20^ INCONTRO POLO CITTATTIVA PER L’ASTIGIANO E L’ALBESE PER L’A.S. ‘14/’15
Nei difficili anni che portarono alla fine dell’ ultimo conflitto mondiale, nacque la Resistenza che ebbe molteplici sfaccettature. Ci furono donne e uomini, spesso privi di cultura, che con i loro gesti aiutarono altri uomini a rimanere tali. Così facendo queste persone, che non erano eroi, combatterono la loro guerra senza armi mantenendo intatta anche la propria umanità di fronte ad un mondo in dissoluzione. Quindi, per opporsi all’oppressione, non ci fu solo la lotta armata ma anche la resistenza civile. Mercoledì 25 marzo 2015, presso l’I.C. di S. Damiano d’Asti, Maria Teresa Milano (dottoressa di ricerca in ebraistica e autrice di saggi su cultura ebraica edidattica della Shoah) e Nicoletta Fasano (ricercatrice e autrice di numerosi saggi storici) hanno tracciato alcune linee di questo quadro i cui contorni non sono ancora del tutto conosciuti. L’ incontro, inserito nel calendario delle Manifestazioni per il 70 esimo Anniversario della Liberazione e della Battaglia di Cisterna e S. Stefano Roero, è stato organizzata dal Polo Cittattiva per l’Astigiano e l’Albese (I.C. di San Damiano d’Asti), dal Museo Arti e Mestieri in collaborazione con l’ Israt e l’Associazione Franco Casetta di Canale. Dopo i saluti iniziali, ha preso la parola Nicoletta Fasano che ha dato contorni più definiti a questo fenomeno. Fino a qualche anno fa si parlava di resistenza passiva invece, negli ultimi anni si preferisce la definizione di resistenza civile intendendo tutto quell’ universo di scelte che portarono a dire dei “No”, proponendo un cambiamento senza l’utilizzo delle armi. Tutto ciò non emerge dai documenti partigiani ma dalle fonti orali e da quelle dei documenti nazisti. Questi ultimi, dopo l’estate del ’44, associano la lotta partigiana con la resistenza della popolazione: non collaborare è una scelta deliberata contro il nemico e, come tale, deve essere punita. Il popolo, e non solo i partigiani, sono il nemico da combattere. Tutto ciò ha inizio intorno all’ 8 settembre del ’43 quando diventò evidente l’aiuto offerto agli sbandati italiani ma anche agli alleati prigionieri nei campi fascisti. Senza pretendere nulla in cambio, travestirono da contadini e nascosero molti di questi ragazzi, mettendo in pericolo la propria vita e quella delle proprie famiglie. Ma ci furono anche coloro che scioperarono nelle fabbriche bloccando la produzione industriale già nel marzo del ’43. Olga Idrame fu una di loro. Nata nel ’24 a S. Damiano d’Asti, benché giovanissima riuscì ad organizzare lo sciopero di circa duecento operaie della futura Facis (allora Lidias) in due anni diversi. Diverso e variegato il panorama delle motivazioni che spingevano a questi gesti: poteva essere la fede politica, religiosa, l’odio contro i tedeschi ma anche le reti parentali. La resistenza civile fu soprattutto femminile: anche l’organizzazione di una festa di paese era una sfida. Però giunsero molti altri “No” anche dai campi di internamento militari dove, benché lusingati dalla promessa della libertà, il 90% dei soldati italiani non accettò l’arruolamento nelle fila del nemico preferendogli la prigionia che, spesso, ne causò la morte. Comunque, in questi ed in altri lager, ci furono altri gesti di resistenza come il boicottaggio della produzione per farla rallentare, costituendo un ostacolo alla prosecuzione della guerra. La resistenza civile fu anche di tipo culturale: ricordare i versi di un poeta era un modo per recuperare la dignità di uomini.
Maria Teresa Milano ha incominciato il suo intervento proprio prendendo spunto da questo universo di gestualità e di scelte che, molto spesso, non videro un riconoscimento e di cui, sovente, non venne neppure raccolta la memoria. Il libro “Salvatori e Salvati. Le storie di chi salvò gli ebrei nella Seconda guerra mondiale in Piemonte e Valle d’Aosta” (a cura di M. T. Milano, Le Chateau Edizioni) nasce proprio da un’idea della Comunità ebraica di Torino con la finalità di raccogliere in un volume questi racconti. Già nel ’55 era nata dal Consiglio della Comunità Ebraica, l’idea di raccogliere questo materiale. La Comunità di Torino aveva emanato una circolare che invitava tutti gli iscritti a segnalare alla segreteria i nomi dei cittadini che avevano garantito la salvezza di qualcuno di loro. Oltre al nome, era necessario indicare la motivazione della segnalazione. Si faceva riferimento solo agli iscritti e non a coloro che si trovavano di passaggio nella città o che furono salvati in altre regioni. Ci furono altre raccolte di documentazione negli anni ottanta e poi nel 2006. Purtroppo parte di quella documentazione è andata perduta e, proprio per questo, era necessario raccogliere quanto rimaneva affinché non andasse disperso. Il testo, che per scelta non contiene una contestualizzazione storica e non è un manuale di storia (poiché basato solo su memorie e testimonianze), vuole essere una sorta di “archivio” utile a tutti coloro che, partendo da questo materiale, vorranno iniziare una vera e propria ricerca. Variegata è la tipologia di queste testimonianze perché alcune sono cortissime, altre molto dettagliate. Alcune inoltre, sono state rilasciate dai discendenti che avevano sentito parlare di questa storia ma non l’avevano vissuta. Altri ancora preferirono dimenticare e non vollero rilasciare alcun tipo di dichiarazione. Proprio per tutti questi motivi, molta è la difficoltà dii rendere oggettivo questo materiale che, però, può essere efficacemente utilizzato per aiutarci a comprendere la ragione per la quale delle persone, spesso molto semplici, rischiarono la vita per salvarne altre che neppure conoscevano. Molti fra loro, interrogati sulla vicenda in anni successivi, risposero che avevano fatto solo il loro dovere, che quella era l’unica cosa che era possibile fare e che, proprio per questo, non meritavano alcun tipo di gloria. Invece, proprio per onorare coloro che salvarono la vita anche solo ad un ebreo, nacque nel ’53 il progetto per la fondazione dell’ Istituto dello Yad Vashem. Per ciascuna delle persone meritevoli dell’onorificenza, veniva piantato un albero (che per gli ebrei è un simbolo di vita). Come nei lager veniva tolto il nome per togliere dignità, qui era importante assegnarlo per dimostrare che l’umanità, nonostante tutto, non si è esaurita. Ovviamente, vennero stabiliti dei criteri per assegnare questo riconoscimento. Ad esempio, oltre ad avere salvato la vita ad un ebreo, occorreva averlo fatto in modo consapevole. Resistenza civile, come ha ricordato la Milano, fu anche quella attuata nel campo “modello” di Terezin dove, nonostante le privazioni e i rischi, si continuò a fare musica, teatro, arte… ad insegnare ai bambini cercando di tutelarli come meglio si poteva sollecitandoli alla vita e alla speranza. In questo caso la cultura era un mezzo per salvarsi, per rimanere uomini non soccombendo alla bestialità. Sempre e comunque. Queste storie dimostrano come, sempre e comunque, è possibile fare delle scelte che ci vogliono protagonisti in prima persona anche quando sarebbe più comodo spostare il proprio sguardo altrove.
Giovanna Cravanzola