“IL MANICOMIO DEI BAMBINI. LA TERRIBILE STORIA DI BAMBINI DIMENTICATI”
5^ INCONTRO DEL POLO CITTATTIVA PER L’ASTIGIANO E L’ALBESE PER L’A.S. ‘17/’18
REGISTRAZIONE DELL’INCONTRO IN FORMATO MP3
Ci sono argomenti che non fanno notizia perché riguardano gli “invisibili”, persone trasparenti e prive di voce. Il giornalista Alberto Gaino con il suo libro “Il manicomio dei bambini. Storie di istituzionalizzazione” (EGA) ha avuto il merito
di togliere la polvere del tempo a storie terribili ma, soprattutto, di far parlare tante piccole vittime indifese e senza giustizia, scordate da tutti, trattati come immondizia da nascondere. Il libro è stato presentato sabato 11 novembre 2017, alle ore 16, presso il Castello di Cisterna d’Asti. L’incontro è stato organizzato dal Polo Cittattiva per l’Astigiano e l’Albese – I.C. di S. Damiano d’Asti con il Comune e il Museo di Cisterna d’Asti, le Edizioni Gruppo Abele e l’Aimc di Asti. La dott.ssa Marina Patrini, direttrice del reparto di Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale S. Lazzaro di Alba (Cn), ha introdotto l’incontro coniugando le suggestioni suscitate dalla lettura del libro con la descrizione della Neuropsichiatria infantile oggi. Infatti, a differenza del passato, il lavoro è condotto da un gruppo multidisciplinare e ciò consente un approccio alla persona da diversi punti di vista al fine di trovare soluzioni che consentano uno sviluppo armonioso e globale. Il libro, come ha ribadito la dott.ssa Patrini, ha lo scopo di non dimenticare.
Oggi, infatti, i manicomi non esistono più ma è indispensabile non abbassare la guardia perché, in qualche anfratto, possono ancora accadere le aberrazioni del passato. Carcere, punizione, tempo immobile e assenza di famiglia erano le costanti di un manicomio. Bastava poco per far precipitare un bambino in quell’inferno dal quale, quasi sempre, non era più possibile uscire perché, come ha scritto l’autore, il manicomio era un carcere a tutti gli effetti. Il ripensarsi bambino in quegli anni è stata una delle spinte che hanno indotto Gaino a condurre la sua indagine: essendo tra i fortunati che non erano caduti in quell’inferno, aveva il dovere di raccontare per coloro che ne erano stati sommersi ma anche per darne memoria a tutti quelli che non conoscevano questa storia. Oggi, sembra di ascoltare il barbaro racconto di secoli oscuri e invece sono trascorsi solo pochi anni da quando un bambino di tre anni (ma anche più piccoli) poteva essere rinchiuso. Esserini così piccoli e indifesi non potevano che peggiorare all’interno delle mura del dolore o, se andava meglio, del nulla. Quasi tutti arrivavano con la diagnosi di oligofrenia o deficienza che non volevano dire nulla. In realtà, molti erano definiti come deficienti perché vivaci e, sovente, figli di immigrati che non conoscevano neppure la lingua italiana. Il picco di “reclusioni”, infatti, corrispose al 1967 anno in cui ci fu un’esplosizone demografica a Torino dovuta all’ immigrazione. La fabbrica aveva bisogno di nuove braccia, offriva lavoro ma, in cambio, distruggeva le comunità parentali, le relazioni, il sé per deportare vite in lande desolate, dormitori privi di qualsiasi servizio in una città che era stata incapace di accoglienza. Questi quartieri, oggi che le fabbriche sono chiuse, sono ritornati dei deserti abitati dalle ombre dei fantasmi di ieri. Tutto ciò, per moltissime persone più sensibili, determinò l’internamento nei manicomi: erano operai alienati ma anche moltissime casalinghe e bambini.
Questi ultimi, finivano in strutture come Villa Azzurra di Grugliasco, un luogo “che di quel colore non aveva proprio nulla…” come ricorda una vittima detenuta a soli tre anni. Erano strutture promiscue, dove si consumarono delitti aberranti e violenze che rimasero impunite. Non c’era cura, non c’era possibilità di miglioramento: era la disumanizzazione in strutture che avrebbero dovuto aiutare ma che erano dei veri e propri lager. Ci finirono, come si è già scritto, bambini vivaci ma anche ciechi, sordi, epilettici… o, semplicemente, poveri e orfani. Molto spesso, la classe differenziale era il primo passo per finirci. Si subiva l’elettroshock per punizione. Queste erano le cure del professor Coda, considerato il maggiore esperto in materia anziché un sadico maniaco. Poi, una coraggiosa inchiesta condotta dall’ “Espresso” riuscì a buttare in faccia all’opinione pubblica quello scempio. La struttura venne chiusa ma quelle vite erano ormai perse. Molti bambini vennero rifiutati dalla famiglia d’origine, molti non ne avevano una e parecchi finirono nel giro della droga o si suicidarono: troppo pesanti i ricordi, il dolore. Altri finirono in altre strutture e, oggi, sono ragazzi invecchiati, distrutti, resi mansueti dagli psicofarmaci.
Il libro serve proprio per ricordare ma anche attivare percorsi e formare coscienze capaci di mantenere alta l’attenzione a tutto ciò che riguarda i più deboli come quei bambini rinchiusi e dimenticati dentro le mura di un incubo.
Giovanna Cravanzola