Lunedì, 29 Ottobre 2018 | Scritto da: didattica

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“UNA SCUOLA CHE ILLUMINA GLI OCCHI”

FIORENZO ALFIERI E ANGELO BOTTIROLI: DALLA SCUOLA CHE C’ERA A QUELLA CHE R-ESISTE

7° INCONTRO DEL POLO CITTATTIVA PER L’ ASTIGIANO E L’ALBESE A.S. 2018/19

REGISTRAZIONE DELL’INCONTRO IN FORMATO MP3

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Sabato 24 novembre 2018, al Castello di Cisterna d’Asti, si è tenuto il terzo appuntamento del percorso “Vecchie e nuove resistenze – C” promosso dal Polo Cittattiva per l’astigiano e l’albese – I.C. di San Damiano d’Asti con Castello di Cisterna e Aimc di Asti. “La scuola che c’era, la scuola che r-esiste” è stato il titolo dell’incontro di cui hanno discusso Fiorenzo Alfieri e Angelo Bottiroli, due Maestri che hanno vissuto in prima persona un modo diverso di essere insegnanti. Parlare di scuola, negli ultimi tempi, non è sempre facile perché è un argomento di cui tutti discutono ma che pochi conoscono realmente. C’è stato però un momento, tra gli anni ’60 e ’70, in cui la scuola è stata davvero una fucina di idee e di sperimentazioni capaci di accendere il dibattito non solo tra gli addetti ai lavori ma all’interno della società. Torino, in quegli anni, conobbe il massiccio fenomeno dell’immigrazione meridionale: la popolazione raddoppiò. Non capitò in nessun’altra città italiana portando nuovi problemi ma anche di un dinamismo mai sperimentato prima. In questo clima, in un quartiere periferico – tra Le Vallette e Lucento – alla Scuola Elementare “Nino Costa” nasce la prima esperienza di tempo pieno. Non è un ambiente semplice: molti alunni sono figli di immigrati, sradicati dalla loro terra e dai loro affetti, spesso non conoscono che il proprio dialetto. L’italiano è una lingua “straniera” ma, soprattutto, “ostile” e chi non la comprende viene tagliato fuori, ghettizzato… bocciato. C’è bisogno di rispondere a queste nuove necessità di cui la scuola deve farsi carico. I primi a comprenderlo sono dei giovani ed entusiasti maestri che colgono subito che qualcosa è cambiato per sempre. Fiorenzo Alfieri è uno di loro. Sono animati dalla voglia di trovare nuovi sentieri didattici ma sono pionieri che fondano le loro radici culturali nella conoscenza di Freinet e Dewey. Quest’ultimo sosteneva che tutto quello che fa la scuola o ha una ricaduta sulla società oppure è inutile perché quest’ultima ha senso solo se è una palestra di preparazione per la vita. Era un filosofo e, a Chicago, aveva aperto una scuola primaria all’interno dell’ università. Freinet, invece, era stato cacciato dalla scuola pubblica e, proprio per questo, ne aveva aperta una privata con la moglie. Aveva maturato l’idea che bisognava essere in tanti a lavorare con le tecniche attive non solo in Francia ma anche nel mondo. Questi riferimenti culturali, uniti a quelli del prof. De Bartolomeis, fanno sì che questi giovani maestri partecipino al I° Congresso Nazionale Mce. Infatti, il metodo che utilizzano ha alla base la cooperazione educativa di Freinet che prevede non soltanto la collaborazione tra gli alunni ma lo scambio continuo di esperienze tra gli insegnanti. In quei tempi, la scuola faceva notizia in senso positivo, sapeva uscire dalle sue mura per interessare, proporre, modificare. Era un motore di cambiamento, dove il fare era sempre accompagnato dalla consapevolezza del perché si stava facendo quella cosa in quel modo. Sovente, infatti, questi modelli di scuola vengono confusi con lo “spontaneismo” e l’ “anarchia al potere”. Nulla di più sbagliato. Dietro ad ogni azione c’era la grande preparazione dei maestri che, con fatica, riuscivano a coordinare per 40 ore settimanali, classi di 30 ragazzi suddivisi in gruppi di lavoro. Ogni mattina, seduti in cerchio, la lezione iniziava con la conversazione durante la quale tutti partecipavano e nessuno era escluso. il dibattito era uno strumento fondamentale per la costruzione di una conoscenza condivisa perché ogni gruppo non raccontava solo del risultato ma anche i processi grazie ai quali si era raggiunto. Se qualcosa aveva appassionato i ragazzi, si decideva di farlo sapere all’esterno: in primo luogo alle famiglie ma anche più lontano. Gli alunni, così, si facevano anche promotori di iniziative che oggi potremmo definire di cittadinanza attiva e partecipazione capaci di coinvolgere anche gli adulti. Attraverso l’utilizzo della tipografia – acquistata come gli altri materiali di tasca propria dagli insegnanti – della pittura, del teatro, del laboratorio scientifico, del giornale (letto e prodotto)… venivano declinate le varie discipline sempre in modo diverso perché diversi erano gli alunni protagonisti di queste esperienze. Ovviamente, come già indicato, alla base c’era il rispetto delle regole condivise (e anche severe perché le sanzioni erano stabilite dagli alunni stessi) ma anche l’apprendimento a indicare che nulla era estemporaneo. Un lavoro decisamente faticoso e, proprio per questo, pochi erano in Italia gli insegnanti che se ne facevano carico. Oggi, tramite la tecnologia, tutto sarebbe molto più semplice. Scopo di questa scuola era scatenare l’interesse emotivo ma anche la scintilla che rende affamati di conoscenza, come diceva Bruno Ciari. “C’ è stato un momento della storia – ha detto Angelo Bottiroli – in cui erano presenti molte condizioni che favorivano il lavoro degli insegnanti. Era un clima culturale e politico diverso. Case editrici importanti si occupavano di scuola. Tutta la società si occupava di scuola e la scuola era in grado di comunicare con la società i grandi risultati che stava raggiungendo. Far partecipare alunni e famiglie a esperienze condivise era una delle finalità principali. Quest’aria frizzante che si respirava ovunque, consentiva a chi lo desiderasse di avere la possibilità di sperimentare nuove tecniche didattiche anche in scuole di frazione e luoghi disagiati. Così, molti dei diritti riconosciuti nei decenni successivi (vedi i Diritti dei bambini) erano già praticati in questo modello di scuola”. Oggi – hanno concluso Alfieri e Bottiroli – la scuola che “r-esiste” è quella fatta da insegnanti motivati e formati ma che, alle spalle, deve avere l’appoggio delle amministrazioni e del mondo politico. L’importante è non arrendersi ma essere consapevoli che quello dell’insegnamento è il mestiere più bello del mondo che dovrebbe accendere – in bambini e maestri – la luce quando la notte diventa giorno e quello che non si capiva diventa chiaro. La stessa gioia che si legge negli occhi di Annina, due anni e mezzo, quando dice: “Adesso ho imparato…e poi imparo di nuovo!”.

Giovanna Cravanzola

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