“PEGGIO DELLE MAFIE C’E’ SOLO LA CULTURA MAFIOSA… PERCHE’ LA MAFIA RIGUARDA TUTTI”
IL GIORNALISTA PAOLO BORROMETI AL CASTELLO DI CISTERNA D’ASTI
REGISTRAZIONE DELL’INCONTRO IN FORMATO MP3
Giovedì 20 giugno 2019 – al Castello di Cisterna d’Asti – il giornalista Paolo Borrometi ha presentato il suo ultimo libro “Un morto ogni tanto. La mia battaglia contro la mafia invisibile” (ed. Solferino). Renato Romagnoli, giornalista de “La Nuova Provincia di Asti” ha dialogato con l’autore. L’incontro, organizzato dal Polo Cittattiva per l’Astigiano e
l’Albese con il Museo Arti e Mestieri di un Tempo di Cisterna e l’Aimc di Asti, rientra all’interno del percorso “Vecchie e nuove R – esistenze D” rinviato più volte per cause indipendenti dalla volontà del relatore e degli organizzatori. Recenti le nuove minacce al giornalista che, dal 2014, vive sotto scorta a causa del costante pericolo che corre per le sue inchieste sulla mafia. Nell’introdurre l’incontro, i responsabili del Polo Cittattiva hanno sottolineato la loro piena solidarietà a Borrometi che, con il proprio lavoro, sta denunciando un mondo che molti preferirebbero non conoscere ma che ci riguarda tutti molto da vicino. Partendo dai nostri acquisti ma anche dai nostri atteggiamenti quotidiani, ciascuno può fare la differenza. Spesso, infatti, si ritiene che le mafie siano solo una piaga di alcune zone del nostro Paese ma in realtà, come denuncia il libro: “Peggio delle mafie c’è solo la cultura mafiosa…” che è quella del favoritismo e della raccomandazione nelle piccole come nelle grandi cose. E’ necessario, invece, sovvertire questa visione di mondo sentendoci tutti chiamati in causa con il nostro nome e cognome. A questo scopo, è stata ricordato l’ appello “Io non ci sto…!!!” promosso dal Polo Cittattiva e sottoscritta da associazioni e persone comuni in merito alla vicenda della svastica tracciata su una collina. “Il libro è gradevole” ha detto Romagnoli “e lascia una serie di domande delle quali, chi visita la Sicilia come turista, non si accorge. Molti non hanno amato questo libro e diverse sono state le minacce di morte, a causa delle quali, la vita dell’autore ha cambiato consistenza”.
“Oggi il significato delle parole per molti non è importante. Invece, riferendomi all’appello di cui si è parlato, se si inneggia al fascismo e al nazismo, si esalta un crimine perché l’odio di razza ha segnato i nostri territori. Io sono fieramente siciliano. Ho scritto questo libro perché, alla quarta condanna a morte, la grande paura mi ha portato a scrivere affinché ognuno di voi sapesse che la mafia riguarda tutti. La frutta e la verdura arriva dalla mia terra e voi siete gli inconsapevoli utilizzatori finali: i miei territori solo l’alfa, i vostri l’omega. Si parla di mafie ma in modo sbagliato perché oggi sono radicalmente cambiate e ricorrono alla violenza solo come ultima spiaggia. Io ho scelto di fare questa professione per Giovanni Spampinato (ucciso per le sue inchieste) che era un giornalista di Ragusa, la provincia più ricca d’Italia. Sciascia parlava di Sicilia “sperta” e “babba” intendendo per quest’ultima Ragusa, Siracusa e Messina” ha detto Borrometi. Proprio la volontà di farsi domande e trovare risposte sul motivo per cui la mafia non fosse transitata da queste terre, lo inducono a indagare. Purtroppo, molte sono state le domande da parte sua ma poche quelle di moltissime altre persone partendo, ad esempio, dai 57 giorni che separano la morte di Falcone da quella di Borsellino. Come è stato possibile che nessuno abbia fatto nulla pur sapendo quello che sarebbe successo il 19 luglio 2019? “Io ho solo cercato di condividere le risposte e ho trovato la mafia a Scicli, il paese dove si gira “Il Commissario Montalbano”. Nel 2014, stavo “solo” raccontando dei boss che facevano i peggiori affari”. A causa di ciò, Borrometi subisce una brutale aggressione che gli lascia un’invalidità permanente a un braccio. “Mi dissero: “Non ti sei fatto i cazzi tuoi e questa è solo la prima”. Ma cosa vuol dire fare il giornalista? Io ho scelto questo mestiere per raccontare ciò che accade a chi legge. L’art. 21 non parla solo del diritto/dovere a informare ma anche del diritto dei cittadini a essere informati. Infatti, solo con la conoscenza e la cultura potremo sapere da che parte stare” ha sottolineato Borrometi che, nell’ambito delle sue inchieste, si è occupato dalle agromafie ai rapporti con la politica. “In Sicilia, ci sono circa 7 000 persone condannate per mafia a fronte di una popolazione di 5 milioni di abitanti. Si è combattuta una vera guerra solo che la maggior parte dei siciliani ha pensato che non riguardasse loro. Io mi sono ribellato al fatto che solo la polizia se ne dovesse occupare. Ci sono politici mafiosi e troppi si sono girati dall’altro lato”. Il giornalista ha ricordato inoltre che molte delle vittime di mafia non sono neppure siciliane: Caterina, la più piccola, è stata uccisa nella strage dei Georgofili a Firenze. Le vittime non erano eroi ma persone comuni che volevano fare il loro dovere. “Peggio delle mafie, però, è la cultura mafiosa che privilegia il favore sul diritto. La raccomandazione esiste solo nel nostro Paese ma è anche grazie a questa che queste organizzazioni criminali si insediano nella nostra vita. Investono nelle regioni del Nord e, ormai, non esiste più una regione italiana o europea dove no siano presenti delle infiltrazioni. Hanno anche capito che è molto meglio collaborare tra diverse strutture piuttosto che farsi la guerra”.
Ad esempio, per quanto riguarda il mercato dell’ortofrutta, c’è una suddivisione dei compiti: Cosa Nostra e la Stidda si occupano degli affari locali a partire dalla raccolta fatta a opera di donne schiave provenienti dalla Romania, i Casalesi si occupano del trasporto di cui approfitta l’ ‘ndrangheta per il trasferimento della cocaina. “La solitudine mi ha portato all’ isolamento che è tipico di chi cerca di fare il proprio dovere. Ognuno deve decidere se conoscere questi misteri perché, da questo, passa l’integrità di ciascuno di noi. In questi anni (e 14 processi), la minaccia più brutta è stata l’isolamento. Dicevano che ero un pazzo, ero solo e mi credevano in pochi. Questo isolamento è stato rotto dal Presidente Mattarella che, tra i primi, mi diede un’onorificenza che non era rivolta solo a me ma a tutti coloro che fanno il proprio dovere. La vita sotto scorta, comunque, non è un privilegio… non ho più una vita. Sono sei anni che sono sotto scorta e ringrazio i miei ragazzi”. Romagnoli ha sottolineato il senso altissimo che Borrometi attribuisce al giornalismo ma anche lo sforzo e la difficoltà nel proseguire in una strada così difficile intrapresa, sicuramente, anche grazie ai buoni esempi ricevuti in famiglia ed ha ricordato il biglietto, scritto dal padre, che il giornalista porta sempre con sé: “Mai giù, sempre su”. “I ragazzi non sono il futuro ma il presente. Li abbiamo allontanati dalla responsabilità. Se sono sempre il futuro, il presente di chi è? Le scelte che si fanno oggi, sono quelle che determineranno il domani… Il nostro è un Paese che dimentica facilmente. Invece, dobbiamo raccontare per fare memoria. Bisogna sognare e lottare per raggiungere quel sogno. Lottare per essere liberi di rispecchiarsi nelle nostre coscienze chiedendoci cosa possiamo fare oggi” ha concluso. Un lungo e interminabile applauso ha accompagnato le ultime parole di Borrometi che è stato anche una dimostrazione di stima e affetto per un ragazzo che, ogni giorno, paga le sue scelte ma dimostra dal suo sorriso di vivere, nonostante tutto, con lo sguardo rivolto verso un domani migliore. Un ringraziamento particolare agli uomini della scorta di Paolo Borrometi e anche alle forze dell’ordine della Compagnia di Villanova che, ancora una volta, hanno garantito la sicurezza dell’incontro.
Giovanna Cravanzola