VIDEOSOFIA AL TEMPO DEL COVID
“LA MITOTERAPIA: IL MITO E LA CURA DELL’ ANIMA” CON IL PROF. ALBERTO BANAUDI
Dopo la sospensione causata dalla pandemia, sono ripresi in videoconferenza gli incontri organizzati dal Polo Cittattiva per l’Astigiano e l’Albese – I.C. di San Damiano d’ Asti, Museo Arti e Mestieri di un Tempo, Fra Production spa, Cantine Povero distr. srl, Israt e Aimc Asti. Titolo del nuovo percorso “Vecchie e Nuove Resistenze – 7 al tempo del Coronavirus” con il prof. Alberto Banaudi, docente e appassionato di ricerca filosofica. La mitoterapia è un’antichissima forma di cura per l’anima. In quanto uomini, per sopravvivere, abbiamo bisogno di narrarci storie che addolciscano una realtà che sarebbe triste e insopportabile. Infatti, come diceva Leopardi, abbiamo bisogno di consolazione già per il solo fatto di essere nati. Nasciamo privi del senso del mondo. Mani, sguardi, suoni ci accolgono. I suoni, poco a poco, diventano parole, radici di sostanza e senso. Realizzano un abito che ci ripara dal freddo e dal terrore dell’indifferenza e dell’insignificanza iniziali che rendevano tutto indistinto e avvolto nella nebbia. Forse, proprio la voce è l’origine del senso, dell’ ordine (kosmos) dal quale tutto ha inizio perché costruisce un testo (texus) cioè un intreccio. Le parole – prima rassicuranti e poi monitrici - sono i fili che si intrecciano su un telaio. Danno vita a un arazzo di favole e racconti che intessono una visione culturale del mondo che è alla base di ogni nostra narrazione.
Voce, parole e narrazioni sono forme, pennelli e colori che animano quello che prima, per l’uomo, era una sorta di nulla incomprensibile. “È un alfabeto geroglifico, pittografico pieno di simboli che interrompono il silenzio della parete bianca, l’insignificanza e l’ indifferenza del mondo, cioè l’ assenza di differenza tra bene e male, alto e basso”. I miti, le favole ci offrono una mappa per orientarci e ci accolgono come una musica di sottofondo che lega e ricompone “i frammenti dei nostri giorni e della nostra vita sussurrandoli in un livello più alto”. Infatti, noi uomini siamo macchine per produrre significati: meglio assurdi e folli che assenti. Rispetto al mondo, è come se ci trovassimo di fronte ad un muro con un buco. Se non siamo capaci di riempirlo con dei significati, rischiamo di venire risucchiati da questa falla rimanendo esposti al freddo di un dolore privo di strumenti per esprimersi. Proveremmo lo strazio di vivere in un mondo che non ci appartiene e al quale sentiamo di non appartenere: senza senso la realtà, senza senso la nostra stessa esistenza. Le narrazioni, i miti… ci vengono in soccorso e sono sogni, deliri collettivi – quelli creati dalla cultura - o individuali. Proteggono dall’ orrore dell’insignificanza perché “siamo animali terrorizzati alla ricerca di una via di fuga dal pericolo del non senso”. Per questo motivo, ci sforziamo di dare un ordine ai contenuti “nudi e crudi” della realtà esterna e anche della nostra interiorità. Il mito ci soccorre e ci accoglie perché si manifesta come terra di passaggio in cui trasferiamo significati.
Pessoa, riferendosi alle origini mitologiche di Lisbona (Ulixabona), scriveva: ”Il mito è il nulla che è tutto…”. È ciò che crea quello che non c’era e che, anche senza essere accaduto, è come se lo fosse. Alvaro De Campos, uno degli pseudonimo dello scrittore, formula la Teoria delle due vite: quella vera - in cui viviamo e moriamo – e quella falsa, sognata alla quale il mito dà fondamento. La prima è bassa, vuota di significato mentre la seconda contiene il “nulla che è tutto” e, cioè, il mito. Quest’ultimo, pur non avendo riferimento a qualcosa di tangibile e reale, è tutto ciò che ci fa vivere davvero e che ci fonda culturalmente. L’ amore è un altro mito basato sulla narrazione. La morale si fonda anch’essa sul mito e non sui codici. “Qual è la morale della favola ma anche qual è la favola della morale?”. Proprio per questo, le invariabili eterne di una morale decadono quando le narrazioni su cui si basano perdono di significato, non sono in grado di rigenerarsi e non possono essere riscoperte e attualizzate. Iliade e Odissea sono libri straordinari proprio perché cercano di orientarci nel mondo. Il primo inizia il racconto da una pestilenza che, mietendo vittime, priva la vita di senso. Gli eroi, allora, ne cercano uno nuovo: la morte è ineluttabile ma la fama consente di restare in vita eternamente. Dalla ferocia del vivere, paradossalmente, sorge la morale che si fonda sul racconto. Achille al termine del romanzo, diventa uomo - dopo aver attraversato la violenza più feroce – scoprendo una sorta di empatia che gli consente di conoscere il dolore dell’altro. Ulisse incontra, nel dolore, una profonda moralità riconoscendosi uomo nella propria fragilità. Il mito del labirinto ci offre altri strumenti di comprensione. Ci racconta che cosa sono la durezza della vita e del mondo ma anche che la cultura è ciò che ci aiuta a conoscere e a superare le difficoltà di questo percorso accidentato. Infatti, ci fornisce le mappe per affrontare questo viaggio di scoperta senza perderci. Il mito del labirinto, quindi, racconta uno smarrimento addomesticato. La cultura ci consente di raffigurarci la complessità del mondo ma anche di trovare gli strumenti per attraversarlo. La scuola dovrebbe rendere coscienti i ragazzi della fatica che richiede la comprensione della realtà ma dovrebbe anche fornire loro gli strumenti per compiere questo percorso. Il mito del labirinto è stato ripreso e rielaborato spesso nel corso del tempo. Per Borges, la vita è un labirinto infinito perché la cultura del ‘900 ci ha messo di fronte a una complessità dalla quale è impossibile uscire.
La mitoterapia, quindi, è una cura perché ci dà uno sfondo del mondo. Ci sono però altre forme di narrazioni, quelle del logos, cioè della ragione e della scienza che ci pongono di fronte alla nuda consapevolezza sempre veicolata, però, attraverso un racconto. Lucrezio rappresenta il tentativo di raccontare la scienza utilizzando la poesia. L’ historía è un altra forma di racconto che narra fatti realmente accaduti. Il mito, però, ci parla in modo simbolico e può diventare pericoloso se racconta una bugia capace di trasformarsi in un delirio individuale e collettivo. La Saga dei Nibelunghi, ad esempio, potrebbe raccontare tutto il percorso del nazismo.
Il teatro è un altro aspetto della mitoterapia soprattutto quello dell’ Antica Grecia. Ha diverse funzioni perché fa entrare in relazione gli spettatori tra loro ma anche con la rappresentazione stessa, in una sorta di eucarestia di senso. Il teatro greco era a cielo aperto perché gli spettatori godevano dello spettacolo insieme agli dei. “Nell’evento tragico avveniva qualcosa di terribile e meraviglioso. Per qualcuno era la sublimazione del sacrificio umano attraverso il racconto di miti”. Per Aristotele, tramite lo spettacolo, avveniva una catarsi dalla e delle passioni: la nostra voglia di piangere e il nostro terrore di vivere, la commiserazione e la paura. Per questo motivo, il teatro, per mezzo della rappresentazione del sacrificio del capro espiatorio, ci cura l’anima.
Tutti i grandi miti greci hanno qualcosa di terribile ma il mito può curare l’anima solo se non tradisce troppo la verità.
Ci sono miti che sono bugie che ci narriamo per sopravvivere. La stessa arte di raccontare la nostra biografia è una continua menzogna perché la rielaboriamo continuamente per renderla accettabile e proiettare in essa nuovi significati. A volte, per la necessità che abbiamo di storie, trasformiamo i bugiardi in eroi grazie alla loro capacità di raccontarci i miti che più ci distraggono dalla realtà, come racconta Bion nel suo “L’apologo dei bugiardi”. Al contrario, spesso, rimane incompreso chi racconta la verità. La mitoterapia diventa psicoterapia proprio quando narra della verità. La tragedia della conoscenza, come accade ad Edipo, è scoprire che la verità non è mai qualcosa di generico ma ci riguarda da vicino. Porta a rispecchiarsi nell’ orrore e in ciò che di terribile c’ è in noi.
“… a curare l’anima non sono necessariamente soltanto i miti a lieto fine, ma anche quelli più ‘tenebrosi’ e pessimistici… I Greci, ad esempio, andavano a teatro per assistere alle tragedie, la cui trama era costituita da miti per nulla ‘leggeri’, con il preciso scopo di curare la propria anima… Il mito di Aiace, Edipo o quello di Penteo fatto a pezzi dalle Baccanti, per citarne qualcuno, sono percorsi ‘iniziatici’ di scoperta del male e dell’ombra che abitano in noi, ripercorrere i quali può procurarci consepevolezza e allo stesso tempo ‘purificazione’, la famosa “catarsi” aristotelica di cui si è parlato”.
Attraverso la tragedia, i Greci sapevano guardare l’abisso senza farsene distruggere. Era questa, per un popolo pessimista come il loro, la vera mitoterapia. Per l’uomo, è terribile accettare la mancanza di senso. Per questo, deve continuare a trovare l’astuzia, anche utilizzando scienza e tecnica, per proseguire la sua narrazione senza farsene soggiogare, come accade a Ulisse ne “Il canto delle sirene” di Kafka. C’ è ancora bisogno di miti e narrazioni per dare un senso al nostro mondo: “Le parole sono all’ origine di tutto perché tutti i nostri significati sono magie che nascono con le parole. È per questo che, anche oggi, noi facciamo domande sui miti che racconteremo dopo perché una pandemia rischia di far tacere la narrazione. In futuro si dovrà capire quale narrazione dare di questi giorni” ha concluso il prof. Banaudi.
Giovanna Cravanzola