IL PRINCIPIO TERRITORIALE”
NE HANNO DISCUSSO ALBERTO MAGNAGHI E GIANFRANCO MIROGLIO
La parola territorio è un termine molto utilizzato e, per certi versi, controverso. Proprio per questo era importante dedicargli un nuovo appuntamento con la presentazione del libro “Il principio territoriale” (Ed. Bollati Boringhieri) di Alberto Magnaghi. L’autore ne ha discusso, in videoconferenza, con Gianfranco Miroglio giovedì 7 ottobre 2021.
L’iniziativa è stata promossa da Polo Cittattiva per l’Astigiano e l’Albese – I.C. di San Damiano, Museo di Cisterna, Associazione “I love San Felice“, Comitato “Amici di Robella”, con Fra Production spa. Alberto Magnaghi è Professore emerito di Pianificazione Territoriale presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, dove ha fondato e diretto il LaPEI. Fondatore della Scuola territorialista italiana, è stato coordinatore nazionale di Progetti di ricerca e Laboratori sperimentali sui temi dello sviluppo locale autosostenibile e del progetto di territorio anche di carattere strategico e integrato tra i quali il Progetto Fiume in Val Bormida (I988) e il Piano di indirizzo territoriale con valenza di Piano paesaggistico della Toscana (2010-2015). Sperimenta in diversi ambiti territoriali la costruzione di Atlanti del patrimonio territoriale e di istituti di partecipazione per la produzione sociale del Piano.
Gianfranco Miroglio, già insegnante, è stato dirigente scolastico, scrittore, storico rappresentante della sinistra ambientalista di Asti. Per quasi trent’anni, è stato Presidente del Parco Paleontologico Astigiano. Proprio Miroglio, in apertura, ha sottolineato come il libro abbia avuto la capacità di affascinarlo grazie a testi e capitoli pieni di bellezza. Un ‘opera importantissima che regala la speranza in un futuro positivo e la possibilità della realizzazione di un’ utopia concreta.
“Ho girato ovunque ma uno dei luoghi che amo di più è l’Alta Langa. Oggi la velocità con la quale si succedono tragedie naturali ha reso imprescindibile una riflessione sull’uomo e i luoghi in cui vive. La modernità ha interrotto il processo di alleanza tra insediamento umano, natura e ambiente che ogni civilizzazione aveva in passato. C’era sapienza e sapere rispetto alla relazione con l’ambiente in un rapporto coevolutivo. L’uomo ha costruito il territorio dopo la cultura nomade mentre, prima di allora, esisteva solo la terra. Un tempo c’era un’osmosi tra città e campagna e I sistemi insediativi dell’uomo avevano saputo trattenere un legame ed un rapporto con la natura. Le Langhe, ad esempio, sono costruzione antropica ma capace di creare nuovi ecosistemi che funzionano con una propria autonomia. Il territorio, quindi, é figlio dell’uomo e della natura. Purtroppo, quando abbiamo divorziato dalla natura e dalla storia (considerate inutili) tutto è precipitato. Noi siamo una civilizzazione che ha avuto la presunzione di poter creare crosta terrestre senza più tener conto della natura. Invece il patrimonio che ci circonda non si deve più vedere come qualcosa a lato dello sviluppo. In questa visione, il territorio veniva utilizzato per sfruttarlo mentre tutto il resto veniva tutelato e diventava un parco. Oggi tutto ciò è cambiato: basta la gabbietta protetta per i posteri. Occorre invece una valorizzazione del territorio come patrimonio sociale insieme alla consapevolezza che il paesaggio è ciò che viene percepito dalla popolazione e non solo le eccellenze vincolate. Lo sguardo, per questo, si deve allargare a tutto il territorio perchè ci si deve occupare anche delle brutture, di tutto il territorio attraverso degli ambiti che portino a elevamento della qualità. Un patrimonio vivo serve per costruire l’autosostenibilità cioè la capacità di riprodurre ciò che gli consente di sopravvivere. A questo riguardo, non c’è solo la Convenzione europea del paesaggio e il Codice dei beni paesaggistici ma anche la Convenzione di Faro che parla di comunità di patrimonio come qualcosa di cui si devono occupare, per l’appunto, le comunità locali. Tutto ciò cambia completamente lo sguardo. Senza la partecipazione attiva degli abitanti (che non sono clienti consumatori) non si ottiene nulla. Quest’ultima deve essere in grado di gestire nuovamente il patrimonio dei saperi del territorio. Occorre un popolo desiderante… il popolo della cura. È necessario mettere insieme piani e laboratori con gli abitanti che sono molto più ricchi dei saperi degli urbanisti. Sono i saperi di comunità di quando il territorio era trattato con sapienza. Questo è il vero ritorno è un futuro. Molto spesso, invece, ci siamo comportati come “un popolo di montagna che si crede di pianura” – come dice Paolini – concentrando in modo fordista l’attenzione solo alla produzione. Oggi, invece, si sta cercando un riequilibrio tra metropoli, piccole e medie città. Per questo non si scoprono più l’America ma le vecchie terre e i loro valori per combattere abbassamento della qualità della vita delle periferie che sono diventate sede di vita di gran parte della popolazione urbana. La Langa, attualmente, viene vista attraverso tre modelli: di abbandono agricolo, terra destinata alla caccia o ai turisti. Un altro destino, però, è il recupero della policoltura e della qualità dell’ agricoltura, l’ uso del bosco collegata all’antico ma che è in grado di ricostruire e ospitare naturalmente chi vuole venire. Per fortuna le energie in campo si stanno moltiplicando e io mi sento, proprio per questo, ottimista” ha detto Magnaghi.
Purtroppo, come ha ricordato Miroglio, il territorio viene utilizzato come una bandiera diventando priva di significato e per cambiare sguardo occorrono tempi lunghi molto spesso non compatibili con quelli della distruzione. Per questo la parola sostenibilità è anche discutibile e, spesso, sostituisce sopportabilità inteso come sforzo, da parte delle istituzioni, di rendere sopportabili situazioni che non lo sono affatto. Da tutto ciò, scaturiscono progetti tappabuco che prevedono dispendio di energie e fondi pubblici ma producono scarsi risultati e, talvolta, anche danni ulteriori. Oggi, come ha sottolineato Magnaghi, lo sforzo deve essere rivolto non più alla rivoluzione ma alla ricerca di forme di potere che tengano conto delle comunità che stanno alla base di tutto. Infatti, come sosteneva Olivetti, è la comunità concreta che deve stabilire gli obietti di vita e produzione, diventando una comunità territoriale. Questa prospettiva apre alla speranza nuovo futuro nel quale essere coinvolti anzichè stravolti.
Giovanna Cravanzola