Venerdì 14 ottobre, il castello di Cisterna è stato inondato dal profumo e dal gusto di tajarin fumanti grazie alla presentazione del libro di Luciano Bertello “Piccola storia dei tajarin. Viaggio affettuoso di un piatto povero diventato ricco” (Slow Food). L’autore, insieme a Vincenzo Gerbi e Silvano Valsania, ha fatto immergere i presenti in un’atmosfera di altri tempi. Luciano Bertello, da sempre, ama scrivere e scrive di ciò che ama: il territorio. Come ha ricordato Valsania, è fra coloro che ha fatto di più per il Roero, è un prolifico autore di saggi sul territorio ma non solo. È anche un fine narratore che, attraverso il gusto della parola, trasmette non solo conoscenza ma anche emozioni. “Alla base c’è l’orgoglio identitario per il nostro territorio. Tajarin è un termine dialettale, forse l’unica parola pronunciata correttamente in tutte le lingue. Sono il piatto della tavola albese e libro dimostra che la loro culla sono le Alte Langhe. Era un lavoro in cantiere da molto ma, con la pandemia, ho trovato il tempo per raccogliere tanti rivoli sparsi, maturati in una vita ma non è un sinonimo di tagliatelle. La mia idea è che sia proprio il contrario e ho voluto documentarlo consultando, per prima cosa, tutta la letteratura del settore a partire dalla cucina medioevale fino ad arrivare a quella gastronomica. Nasce nei luoghi della malora, localizzabili nell’Alta Langa e la differenza, codificata dagli studiosi, sta proprio nella loro finezza. La documentazione reperita nella commedie di Allione sottolinea che, insieme alla carne cruda e al formaggio, erano il cibo per le balie. A Prunetto, in tempi recenti, era ancora in uso portarne tajarin in dono alle puerpere” ha detto Bertello. Il taglio, come ha evidenziato Gerbi, era un passaggio fondamentale così come lo erano i coltelli. In effetti, a differenza di tutti gli altri tipi di pasta, i tajarin prendono il nome da un gesto e questa è pura poesia contadina. Un libro impastato di farina, uova e fatica di un territorio pieno di passato ma anche di futuro. Un piatto che ha fatto carriera, di origini povere ma con una storia antica nata nelle cascine di Langa Roero e Monferrato e di cui, già nel ‘400, si scriveva. Da allora è un fiorire di ricette alla cui base ci sono coltelli, uova, acqua e mani. Il segreto per ottenerli sottilissimi sta proprio in questo. La falce usurata si trasformava nel coltello che, con il suo rituale, chiudeva un ciclo: dal grano alla pasta. “Era l’essia ricavato dalla lama della falce (siessa) usurata da tante mietiture. Una resurrezione. Un’arma che richiede manualità sopraffina e che non è per tutti perchè pericolosa. Ma non finiva qui – prosegue Bertello – era necessario fare il meglio che si poteva con quello che si aveva. Per questo i tajarin sono una metafora della storia economica della zona. Tutto ciò si lega alla malora non per la finezza ma perché, una volta impiattati, sembravano di più. Nati poveri, diventano ricchi grazie all’incontro con il tartufo bianco d’Alba. Una storia emblematicamente raccontata dalla questione delle uova: in origine pochissime nonché legate alle stagioni del pollaio, quindi via via più abbondanti”. Ma anche l’acqua ha la sua parte: nel tempo della povertà sostituiva le uova ma ancora oggi è importante per la cottura. “Per finire, i tajarin sono un rito individuale femminile di donne capaci, artefici di una cultura del cibo che oggi primeggia nel mondo. Storie di Langa scritte sugli infiniti feuj (fogli) di pasta impastati, tirati con la pressia (matterello) e tagliati a mano. E un tempo, solo le ragazze che possedevano quest’arte avrebbero trovato marito” ha proseguito Bertello. Meraviglioso il racconto dei tajarin conditi con la Bagna degli Squis raccontata da Remo Salcio. Nelle povere case, una volta fatto il soffritto, si andava alla finestra a catturare gli strilli dei maiali scannati per dare sapore ad un sugo poverissimo. E anche la consistenza e il colore nel tempo cambiano. La presenza delle uova – come ha spiegato il prof. Gerbi – garantiva la parte proteica che faceva acquisire consistenza all’impasto. “L’evoluzione delle uova nei tajarin è la metafora della storia delle nostre colline” ha sottolineato Bertello. Nato povero, forse, ma da sempre ricco di arte perché la cucina è uno straordinario elemento culturale.
Giovanna Cravanzola