Paesi, terra, colline, sangue e anima. Se n’è parlato sabato 9 settembre al Castello di Cisterna.
Il prof. Piercarlo Grimaldi ha presentato “Di lune e di falò. Cesare Pavese: antropologia del romanzo dell’addio” (Rubbettino) e, a seguire, è stato proiettato il documentario “Omero non deve morire” realizzato dalla Fondazione “Radici” con il Centro studi “Beppe Fenoglio” e con Alba città creativa Unesco. Come hanno sottolineato gli autori, scopo della ricerca è raccontare la Langa della Malora di Beppe Fenoglio a partire dall’inizio del Novecento per giungere a quella vissuta dallo scrittore nel secondo dopoguerra: terra grama, lontana dalla ricchezza della Langa del Barolo, un passato da ricordare. La ricerca intende recuperare un patrimonio culturale che sta scomparendo dalle nostre terre perchè Omero non deve morire. Piercarlo Grimaldi ne ha discusso con il giornalista del Corriere della Sera Marcello Pasquero, direttore dell’ Ass. “Radici” ed il fotografo Bruno Murialdo. L’incontro è stato organizzato da Polo Cittattiva per l’Astigiano e l’Albese – I.C. S. Damiano, Museo Arti e Mestieri di un Tempo di Cisterna con Fra Production Spa, Fondazione “Radici” Libreria “Il Pellicano” e Aimc di Asti.
Si è trattata della prima presentazione del saggio che, come ha sottolineato Pasquero, racconta molto già nel titolo. “Nella prima parte della mia vita, sono stato sarto a Cossano Belbo e lavoravo almeno 10 ore al giorno. Il laboratorio era un luogo di ritrovo e narrazioni. È stato lì che ho sentito parlare di Pavese per via della sua fine. Solo dopo ho capito che era uno scrittore. Lo avevo addirittura confuso con un bravissimo falegname di S. Stefano Belbo. Quando ho ripreso gli studi, ‘son caduto lì dentro’, ho scoperto la sua opera perché tante cose che aveva scritto riguardavano anche aspetti della mia vita ed ho capito nel profondo ciò che voleva dire Pavese, ad esempio, parlando dei gorghi del Belbo dove noi ragazzini andavamo a fare il bagno” ha detto Grimaldi.
Negli anni successivi, con la nascita del Centro Studi “C. Pavese”, si è iniziato a lavorare sugli aspetti antropologici dell’opera pavesiana. “Ho conosciuto Pinolo Scaglione anche se all’inizio non ho compreso il nesso con Pavese. Solo dopo, ho colto questa opportunità straordinaria. Intanto, nel 1973, ho smesso di fare il sarto. Mio padre muore e il lavoro manca: l’industria dell’abbigliamento ci ha sostituito. Succede la stessa cosa alla bottega di Pinolo vinta dalla concorrenza. Però decide di non chiudere e rimane lì ad aspettare chi vuole chiacchierare con lui o parlare di Pavese. Non ha mai voluto che registrassimo le nostre conversazioni perché si portava dietro, con il suo mondo, la tradizione di Langa dove l’oralità contadina non può diventare scrittura” ha proseguito Grimaldi.
Infatti Scaglione era rimasto scottato dall’esperienza con Pavese che, prima della pubblicazione, aveva promesso di fargli vedere le bozze ma ciò non era avvenuto. Così si era ritrovato a leggere nel libro cose che, nel mondo contadino, non sarebbero mai state dette e, per questo, aveva perso anche dei clienti.
“Questo saggio è stato elaborato in molti anni ed è una soddisfazione perché mette in parola ciò che è stata la mia vita. Ho lavorato con lo sguardo da antropologo dimostrando che “La luna e i falò” è la sua autobiografia dove si comprendono le motivazioni del suo suicidio. Pavese è morto nel 1950 ma capisce ciò che solo oggi noi comprendiamo della società italiana. Coglie il dissidio dell’uomo che vive tra passato e presente. Anguilla è un trovatello, lascia la campagna che è la sua unica memoria. Muoiono i componenti della sua famiglia adottiva, non sa nulla di quella d’origine. Parte, va in America dove scopre che ogni paese ha il suo cielo e a lui comincia a mancare quello di casa. Allora ritorna e cerca di capire cosa rimane del suo passato ma non ritrova più neppure lo stesso paesaggio. Pavese non scrive mai ‘comunità’ ma ‘paese’ che significa anche memoria collettiva. Per lo scrittore, Pinolo è il mediatore di questo viaggio nel mondo contadino”. Pavese, prima di tutti gli altri, capisce e vive il lutto della società moderna dove la campagna si spopola. Nel suo intervento, Bruno Murialdo ha detto di essersi sentito come Anguilla. Emigrato a Santiago del Cile, ritornò con la famiglia dopo 12 anni. “Per me è stato molto difficile ma mi sono sentito a casa in Alta Langa ritrovando i racconti di mio padre. Però la porto ancora dentro di me la nostalgia pur sentendo le mie radici tra queste colline del Piemonte”.
Come ha sottolineato Marcello Pasquero, il documentario “Omero non deve morire” è un’opera prima nata nell’ ambito della Fondazione “Radici”, sorta nel febbraio del 2020 con soci albesi importanti con lo scopo di salvare la memoria del territorio di Langhe, Roero e Monferrato attraverso la digitalizzazione dei materiali. Il Presidente è Piercarlo Grimaldi che ha presentato questo progetto ed anche il suo nome con lo scopo di salvare l’oralità.
Si è partiti dall’ Alta Langa perché le testimonianze sono ancora vive ma i testimoni, a poco a poco, si stanno esaurendo. Era importante proprio per questo motivo non aspettare oltre.
“Il documentario, anche se è ancora possibile migliorarlo, è straordinario perché racconta la vera Alta Langa che ho nel cuore e produce poesia” ha detto Murialdo.
“Solo ora capiamo questo lavoro e, rivedendolo, abbiamo capito di essere sulla strada giusta” ha evidenziato in chiusura Pasquero.
Una serata di narrazioni e incanto è quella che hanno regalato le parole di Piercarlo Grimaldi, Marcello Pasquero, Bruno Murialdo e non solo. Voci, sguardi, emozioni che hanno saputo parlare alla mente e al cuore dei presenti perché, nonostante tutto, quelle storie e quei paesaggi sono lo sfondo dell’anima contadina che ha ancora tanto da raccontare e insegnarci.
Giovanna Cravanzola