Bel dialogo quello di lunedì 29 gennaio 2024 per la presentazione dell’ultimo saggio di Nicoletta Fasano “Se tutto il mare di questa terra fosse inchiostro… deportazioni, storia, memorie” (Israt). Silvano Valsania, come sempre attento e puntuale, ha colto i nuclei essenziali del libro dipanandoli insieme all’autrice. Più di un centinaio di persone ha partecipato alla videoconferenza ponendo anche molte domande. L’incontro è stato organizzato da Polo Cittattiva per l’Astigiano e l’Albese – I.C. di San Damiano, Museo Arti e Mestieri e Comune di Cisterna d’ Asti con Fra Production Spa, Israt, Casa della Memoria della Resistenza e della Deportazione di Vinchio, Associazione “F. Casetta”, Gazzetta d’Asti, Libreria “Il Pellicano” e Aimc di Asti.
Nicoletta Fasano, laureata in Lettere, diplomata in Archivista e paleografia, è direttrice dell’Istituto storico per la storia della Resistenza e della società contemporanea di Asti dove lavora da oltre trent’anni. È autrice di numerosi saggi sulla storia contemporanea. Tra le sue ultime pubblicazioni: “1914 – 1918: L’inutile massacro”; con Mario Renosio “Un’altra storia. La Rsi nell’ Astigiano tra guerra civile e mancata epurazione”; il lungo racconto “Il violino”. Le abbiamo posto alcune domande.
Silvano Valsania è Presidente della rete degli Ecomusei del Piemonte.
Il volume ricostruisce le vicende degli internati militari, dei deportati politici e dei deportati razziali della provincia di Asti, ricostruite nel più ampio contesto nazionale con riflessioni metodologiche sul tema della memoria e della testimonianza.
Il saggio, come ha sottolineato Valsania in apertura, si configura come un punto fermo nella ricostruzione della deportazione astigiana. È suddiviso in più sezioni e, per ciascuna di queste categorie, le vicende si susseguono cronologicamente - all’interno di un quadro nazionale - con rimandi agli specifici astigiani.
“Si tratta del lavoro di una vita – ha detto Nicoletta Fasano - e forse lo dovevo anche ai tanti testimoni che ho incontrato in questi anni. In queste pagine ho voluto mettere un bel pezzo di me. Ho preso in considerazione le tre deportazioni: militare, politica, ebraica. Molto difficile la restituzione sugli internati militari italiani che, sparsi sui fronti di guerra e catturati dopo l’8 settembre 1943, finiscono in campi di internamento. Per questo è quasi impossibile la quantificazione perché c’è scarsa documentazione. Forse avrà interessato 4000 o 5000 astigiani ma non si conosce la cifra nazionale. Ciò che si può fare è ricostruire attraverso le testimonianze dei sopravvissuti ma esistono anche le comunicazioni che segnalano la mancanza di notizie di giovani soldati che si presume siano stati fatti prigionieri. Spesso, però, non viene dato seguito alle richieste della prefettura. Attualmente, si sta facendo una ricerca nazionale sulle banche dati ma è molto difficile confermare la presenza o meno dei militari. Per quanto riguarda gli oppositori politici, invece, è stato possibile farlo in modo abbastanza preciso. Sono quasi 300 gli astigiani finiti in campi di concentramento gestiti da SS. Purtroppo tra il 60 e il 70% non tornano. Infatti gli astigiano hanno la sfortuna di essere catturati nel dicembre del ‘44 e arrivano in un periodo in cui ci sono troppi prigionieri. Inoltre, nei vari campi arrivano anche i prigionieri trasferiti con le marce della morte dai campi più a est. Per moltissimi significa perdere la scommessa di arrivare vivi fino al maggio del ‘45. Molto difficile è anche la ricerca numerica per quanto riguarda la deportazione ebraica. Ho voluto occuparmi delle singole famiglie perché restituisce l’enorme differenza rispetto alla deportazione politica. In questo caso, infatti, ha riguardato l’intero nucleo familiare che allora era molto vasto. Molti ebrei astigiani furono arrestati fuori dalla città in cerca di salvezza e molti ad Asti mentre sono in fuga da altri luoghi. Hanno legami parentali in zona e diventa difficile il conteggio. Nella comunità astigiana, sono arrestati quasi tutti più un’altra trentina che viene da fuori. Sono partita dalla lapide del cimitero ebraico di Asti lavorando proprio sulle parentele. In tutto ciò c’è la drammaticità di questa deportazione”.
Un saggio, di cui Silvano Valsania ha sottolineato sia la facilità di fruizione che l’efficacia della ricostruzione, che consente di toccare diversi registri unendo fonti orali, documentali… e rendendo, nella drammaticità, più immediata la comprensione avendo la singolarità dei percorsi e delle vite. Infatti, dalla Grande Storia si passa a quella individuale delle persone. Questo avvicina alle situazioni facendole cogliere nella tragicità più assoluta ed è un documento ulteriore che va oltre la ricostruzione del fatto, del dato storico, conferendo particolare efficacia nel lettore.
In effetti, come ha sottolineato la storica, l’idea era proprio questa. Al fondo del capitolo relativo agli IMI, la scelta di inserire alcuni passaggi del diario di Clementina (Mentina) Martino in Fungo che, utilizzando quaderni fascisti su chi cerca di cancellare i simboli del regime, annota tutto ciò che succede dal settembre 43 all’agosto del ‘45 perch, informata dell’internamento del figlio, spera con la scrittura di aiutare il figlio lontano tenendolo in vita. È un cordone ombelicale che non si spezza e costituisce un documento rarissimo e di straordinario interesse storico perché, oltre ai suoi sentimenti, l’autrice registra i bombardamenti, i prezzi, le scosse di terremoto dell’ottobre 43. Al figlio, in un pacco, manda al figlio una penna stilografica invitandolo a scrivere il figlio ma lui, per sopravvivere, la scambierà per un pezzo di pane. Tornerà nel giugno del 1945 (una vera eccezione per i tempi così brevi) ma Mentina continuerà a scrivere per annotare giorno per giorno, ormai affezionata alla scrittura. Il suo diario sarà al centro della prossima pubblicazione dell’ Israt.
Un altro personaggio importante di cui si parla nel saggio è Anna Cherchi di Loazzolo, partigiana della 2° Divisione Langhe del comandante Poli, che è stata un’ infaticabile testimone e accompagnatrice nei campi di internamento. La sua è una delle testimonianze più belle dove racconta anche del suo tentativo di lasciarsi andare alla morte fermati dagli schiaffi di una compagna capaci di riportarla alla vita. Della sua storia è interessante anche il ritorno perché qui viene sottolineata la differenza di genere perché le sopravvissute all’internamento dovettero anche far i conti sui sospetti relativamente alla loro condotta perché vennero accusate di essere venute a patti con il nemico attraverso il loro corpo.
Rispetto alla deportazione razziale, la scelta è stata quella di raccontare le vicende di Enrica ed Elda Jona. La prima ha raccontato fino alla fine sempre con rabbia, rispondendo con un grido quando le chiedevano se le avevano perdonato, rivendicando il fatto di non poterlo fare.
“Enrica Jona è stata fondamentale per la mia crescita e, pur avendo una severità da insegnante anni ‘30, è stata una grande maestra” ha sottolineato Fasano.
“Rispetto ai ritorni e ai cortocircuiti – ha proseguito – forse avrei parlato anche di cose diverse. In realtà ho dovuto trattare dei difficili ritorni, durati mesi terribili, attraverso l’Europa distrutta. Dopo la Liberazione, vengono detenuti nei campi di concentramento dai liberatori ma il grosso problema è l’arrivo al confine dove commissioni militari devono appurare che non abbiano disertato e vengono interrogati come colpevoli. Questa è la burocrazia che piomba loro addosso e a cui devono rendere conto per la loro assenza. Ritorni drammatici anche per le donne che vengono accusate di compiacenza con i nemici per essere tornate ma anche la fatica di ritrovare un ruolo. In più, c’è l’attesa della famiglia che non c’è più come accade a Enrica Jona che, per tutta la vita, aspetterà il ritorno dei genitori. C’è poi il trauma della deportazione”.
Come ha sottolineato Valsania, uno dei problemi del dopoguerra è la zona grigia delle epurazioni e nel saggio sono trattati insieme ad altri problemi legati al periodo. Ad esempio, si parla degli internati militari che oggi vengono considerati come resistenza plurima ma furono scoperti solo alla fine degli anni ‘90 grazie ad un libro di scoperti negli anni ‘97 grazie al saggio “L’altra Resistenza” di Alessandro Natta. Ad un certo punto, questa Resistenza si appiattisce e si militarizza, annichilendo tt quelle che sono state espressioni forti di soldati che rifiutano l’ adesione a Salò. Purtroppo, questa forma di antifascismo nella memoria non viene rilevata e si appiattiscono tutte nella stessa dimensione.
Un altro punto importante del libro della Fasano, tratteggia la figura del podestà Incisa della Rocchetta il quale, capendo che la situazione sta cambiando, gioca su più fronti. Così, nel dopoguerra, arriva l’assoluzione con testimonianze a suo favore anche se le dinamiche sono ben più complesse.
“Sei riuscita a raccogliere spunti che rendono la complessità degli anni e delle ricostruzioni del periodo molto incisivamente” ha detto Valsania.
“È un libro che in certi passaggi crea dei problemi. Purtroppo agli internati militari non si rende merito. Invece, avrebbero potuto far cessare la propria prigionia aderendo alla Repubblica di Salò ma oltre il 95% non lo fece opponendosi al fascismo e alla guerra. Gli atti di sabotaggio, i piccoli gesti di ribellione, spesso eroici, sono appiattiti ma bisogna ricordare che i ragazzi italiani erano al fronte per colpa delle guerre del fascismo. L’Armir è stata mandata in Russia dal fascismo per supportare l’alleato tedesco. Molti furono i comportamenti ambigui da parte delle autorità. Una madre a Rocchetta Tanaro, ad esempio, convince il figlio a consegnarsi ai fascisti convinta di salvarlo ma purtroppo non tornerà” ha aggiunto Fasano.
Un’attenzione particolare è stata riservata alla comunità ebraica partendo dalla sua storia. Un gesto d’affetto da parte dell’autrice che con le sorelle Jona ha iniziato ad accompagnare le prime visite al ghetto di Asti. Una storia che consente di capire come la comunità ha vissuto le leggi razziste e poi la deportazione. Quella di Asti era comunità poco religiosa. Enrica Jona definiva “assimilata” la sua famiglia dove venivano onorate solo le feste religiose più importanti. In primo luogo si sentivano tutti italiani, legati ai Savoia e al Risorgimento. Non percepivano la diversità ebraica ma furono proprio le leggi razziste a creare questa cesura. Oltre ai verbali degli arresti, c’erano gli inventari di tutto ciò che c’era nelle povere case, invase da autorità che frugano ovunque, anche nella biancheria. Viene requisito addirittura ciò che è rotto e pensare a quelle case vuote è doloroso perché nessuno ci ritornerà più.
“Il mio intento - ha detto la storica - era proprio incrociare dati burocratici e vite delle persone. Volevo che si cogliesse questo aspetto”.
Un’altra parte importante viene dedicata alla legge che istituisce la Giornata della Memoria. Poche pagine chiare, come ha detto Valsania, su tutti i problemi sollevati dagli storici su questa giornata istituita all’ inizio del 2000.
Una legge che non cita il fascismo ma Auschwitz, una terra lontana che fa dello sterminio il luogo di altri attraverso la semplificazione della deportazione, come fosse un universo omogeneo ma non è così.
L’uso politico è l’aspetto speculare accompagnato dalla sacralizzazione di questa giornata e del testimone che diventa unico riferimento possibile superiore agli storici, depositario sacralità chiusa nella sua vicenda. La giornata è investita di un ruolo taumaturgico rispetto al razzismo, all’ antisemitismo… invece dovrebbe essere un laboratorio permanente, un momento importante all’interno di un percorso di elaborazione della presenza degli altri.
Per questo, partire dalla presenza ebraica ad Asti è stato importante per evitare di perdere di vista l’identità di questa cultura perché i ghetti pullulavano di vita mentre il 27 gennaio sottolinea solo la presenza di vittime senza ricordare secoli di storia ma anche che ci fu una resistenza ebraica.
Oggi, purtroppo, c’è un forte analfabetismo di ritorno unito alla difficoltà di informarsi correttamente, di capire e di rapportarsi con la storia mentre è molto più facile banalizzare e steroeotipare…
Inoltre, in fondo, il fascismo piace. L’ideale di uomo forte e gli stereotipi al riguardo sono rimasti e si fa fatica a sradicarli.
“Siamo il popolo all’interno del quale è nato il primo totalitarismo. Forse siamo geneticamente portati per questo” ha concluso l’autrice.
Giovanna Cravanzola