Un altro incontro per riflettere sulla deportazione nazifascista e sulle sue conseguenze. Lunedì 19 febbraio 2024, in videoconferenza, Elisa Guida ha presentato “Senza perdere la dignità. Una biografia di Piero Terracina” Ed. Viella. Ne ha discusso con Nicoletta Fasano (Israt). L’ iniziativa è stata organizzata da Polo Cittattiva per l’Astigiano e l’Albese – I. C. di San Damiano d’Asti, Museo Arti e Mestieri e Comune di Cisterna con Fra Production Spa, Israt, Casa della Memoria della Resistenza e della Deportazione di Vinchio, Associazione “Franco Casetta”, Libreria “Il Pellicano” e Aimc di Asti.
Elisa Guida insegna Storia contemporanea presso l’Università degli studi della Tuscia. Socia fondatrice dell’Associazione Arte in Memoria (pietre d’inciampo a Roma), ha pubblicato per i nostri tipi La strada di casa. Il ritorno in Italia dei sopravvissuti alla Shoah (2017).
Nicoletta Fasano, storica e ricercatrice, è direttrice dell’ Israt.
Il libro nasce dopo 15 anni di lavoro ed amicizia tra l’autrice e Piero Terracina.
“Questo lavoro racconta la storia di una famiglia di ebrei romani e sta proprio in questo il senso del saggio. Infatti rappresenta la storia di moltissime altre famiglie ebree deportate e tutto ciò mi ha consentito di mettere in pratica la realtà. La testimonianza da sola credo sia dannosa perché il testimone ha visto solo parte di qualcosa e racconta solo in base alla sua esperienza. Per questo ha bisogno di essere contestualizzata. La storia di una famiglia dà voce a una realtà parentale che, solitamente, non è conosciuta. Raccontare la storia attraverso gli aneddoti, inoltre, è più efficace. Gli ebrei, sono in Italia da secoli, molto prima del 1938. Ad esempio, Leone David, il nonno di Piero, ricordava la breccia di Porta Pia e anche che, fino ad allora, il ghetto era chiuso. Un ricordo che in Piero era rimasto molto presente come il fatto che Leone giocasse vicino all’ex porta del ghetto, sfidando la guardia papalina perché, finalmente, era libero di andare dove voleva. Da questi racconti emerge la storia dell’emancipazione degli ebrei romani” ha detto la prof.ssa Guida.
Ad un certo punto, i nonni escono dal ghetto ed è un passo memorabile. Decidono di andare a vivere in un’altra zona perché quella del ghetto è malsana, malarica, non esistono gli argini del Tevere e nessuno avrebbe voluto viverci. Così oltrepassano il fiume e, anche metaforicamente, entrano a far parte di un altro mondo dove costruiscono la loro vita. Però è fondamentale ricordare di comportarsi nel modo migliore possibile in modo che nessuno abbia ragione di criticare. La generazione del padre di Piero cresce anche attraverso le storie e il mito retorico dei Savoia liberatori. Così, allo scoppiare della Prima Guerra Mondiale, gli ebrei vogliono partecipare soprattutto per gratitudine nei confronti della monarchia.
Anche il padre di Piero partirà ma non combatterà. Decide, però, di non avere figli prima di tornare per paura di lasciare, oltre a una vedova, degli orfani.
Nel dopoguerra, si vive e respira l’Italia liberale e si può vivere bene. Piero è l’ultimogenito. Il padre è un rappresentante di tessuti: dalla vita in una zona malarica al benessere. Per la famiglia è fondamentale che i figli completino gli studi, abbiano un lavoro e siano onesti. Già a 4 anni, per questo motivo, il nonno gli insegna a leggere. Lo studio è la manifestazione di un bisogno di riscatto. La famiglia, come quella di tutti gli altri ebrei italiani, è completamente integrata. Per questo, quando arrivano le prime avvisaglie del razzismo nel 1937, Piero non se ne preoccupata perché gli sembra che sia una cosa impossibile.
A casa si intonano canti socialisti mentre a scuola si imparano quelli fascisti. Quella di Piero è una famiglia antifascista ma è una sua specificità. Infatti non è un tratto tipico degli ebrei perché sono italiani come gli altri e il consenso al regime è molto diffuso. Il mondo di Piero sono i fratelli più grandi ed una delle prime avvisaglie preoccupanti si coglie quando il jazz, la musica dei neri, viene vietato. Però è proprio quella la musica che ascoltano i fratelli maggiori anche in casa.
Così, a poco a poco, si inizia a sapere che sono stati pubblicati testi antisemiti e arrivano le Leggi Razziste che, in prima battuta, non coglie perché non sono ancora stati colpiti i suoi genitori. Lo spirito romanesco non vuole arrendersi al fatto che proprio i Savoia, i liberatori… possano aver fatto agli ebrei una cosa del genere.
Piero ricordava le discussioni tra padre e nonno sull’esclusione della scuola ma, soprattutto, il ricordo dell’allontanamento è un’immagine fortissima perché nessun bambino può non essere disperato in una situazione del genere. Lo studio, il sapere agognato dalla famiglia … ora tutto crolla.
Intanto, le Leggi Razziste interrompono il rapporto con l’adulto, perché non si crede più alle rassicurazioni dei grandi, a ciò che dicono perché non è vero che sanno tutto e non sono onnipotenti. Questo aspetto è comune nel racconto di tutti i sopravvissuti che hanno vissuto quel periodo da piccoli perché, in quel frangente, gli adulti non hanno avuto una risposta. Questo rapporto si rivelerà con tutta la sua tragicità durante l’arresto perché i genitori non possono fare nulla ed è così che finisce l’infanzia.
Qui arriva la grande lezione di Piero. Tutti sono arrestati e il padre è con i figli e il nonno davanti all’ufficio matricole. La nonna è appena morta. Nonno Leone inciampa durante l’arresto. A Regina Coeli non c’è neppure una sedia su cui farlo riposare. In quel momento drammatico, papà Giovanni si scusa per non aver saputo riconoscere i segnali che avrebbero portato a tutto ciò. Si rammarica perché, dopo la razzia del 16 ottobre 1943, non ha saputo difenderli anche se ormai si sapeva cosa sarebbe accaduto. I figli, però, tentano di confortarlo, gli dicono che non è vero. Proprio in quel momento, il padre gli lascia il suo più importante insegnamento ricordando loro di non perdere mai la dignità, qualsiasi cosa accada. Parole importanti, che lasciano il segno anche se, quando conoscerà l’inferno del lager, Piero si chiederà più e più volte come sia possibile non perdere la dignità in quelle condizioni.
Il fatto che la famiglia venga catturata dopo il 16 ottobre è un dato importante perché spesso si pensa che ci sia stata un’unica razzia ma non è così. Nella costruzione della memoria collettiva, che è politica memoriale, nella scelta di un evento ci si basa su che valori selezionare. In quella del 16 ottobre 1943, si attribuisce la colpa ai nazisti. Successivamente, sono state fondamentali le delazioni in cambio di cifre considerevoli. Nella prima razzia, Piero non viene preso per una casualità perché Elena Di Porto, detta la “matta”, scopre che ci sarà la razzia attraverso la morte di un poliziotto e dà l’allarme. Era una donna considerata pazza perché anticonformista e antifascista, partecipò alla Resistenza. Nei giorni precedenti, le SS avevano chiesto di raccogliere 50 kg di oro in cambio della salvezza di 200 capofamiglia e anche il padre di Piero si dà da fare per la ricerca. Tutto ciò permette di verificare che l’umanità nelle persone è ancora presente. L’oro viene raccolto e gli ufficiali nazisti danno la loro parola d’onore ed è per questo che nessuno può credere ad Elena. A quei tempi, la parola data è sacra. Però, nonostante tutto, Elena ritorna al mattino e riesce a salvarsi ma, quando vede che i suoi nipoti sono stati catturati, si consegna e muore ad Auschwitz.
Al momento della razzia, Piero è in coda: è arrivata una fornitura di sigarette ed è andato a comprarle per il padre in un altro quartiere. Intanto, a casa, la famiglia è avvisata con una telefonata dell’arrivo dei tedeschi. È il padre stesso che va a prenderlo alla fila e Piero lo segue. La fuga viene effettuata attraverso i giardinetti che conosce bene perché li frequenta quando esce con la sorella maggiore. Quando tornano, il portiere li informa di quanto sta succedendo e raccomanda loro di nascondersi. Così trovano un convento che accetta di ospitare la madre e la sorella ma poi decidono di non separarsi. Cambiano alloggio e vanno al piano superiore dove abitava una famiglia ora sfollata. Invece i figli maschi si nascondono nel locale caldaia che sembra il posto più sicuro, la figlia sta con i genitori mentre il portiere ospita i nonni nella sua casa piccolissima ( e questo ci fa comprendere il ruolo che ebbero i portieri, pur assumendosi un altissimo rischio, nel salvataggio degli ebrei). Tutti sono convinti che verranno presi uomini adulti, non vecchi e bambini.
C’è da chiedersi chi, allora, avrebbe preso una decisione diversa rispetto a quella della famiglia di Piero perché era inimmaginabile ciò che sarebbe accaduto. Purtroppo la nonna muore poco tempo dopo. Aumenta la paura in casa e non si vuole lasciare qualcuno da solo. Ed è così che si arriva all’arresto del 7 aprile ‘44 quando la famiglia nascosta decide di passare insieme la Pasqua ebraica. La figlia Anna va alla ricerca di cibo ma è fermata da due ragazzi che la seguono, scoprono tutto e segnalano la famiglia. Questa era la versione di Piero, priva di incertezze.
Vengono portati con un’ambulanza a Regina Coeli. Poi arrivano a Fossoli dove trovano l’ultima parentesi di umanità. Piero si è spesso soffermato sul fango che vi aveva trovato e su un ebreo che gli aveva regalato un paio di scarpe. Qui conosce altre persone e diventa amico di Nedo Fiano.
A Fossoli, però, vede per la prima volta assassinare un uomo, si tratta di un ebreo che non si è tolto il cappello davanti a un ufficiale. Si imbastisce un funerale dove tutti i presenti chinano il capo e si tolgono il cappello. È l’ultima immagine umana rispetto alla morte. Nel campo viene diviso dalla sorella e dalla madre che vede per l’ultima volta su una panchina per un saluto straziante. Non rivedrà più neppure nonno e padre che finiranno nelle camere a gas mentre i fratelli sono selezionati per le marce della morte. Questa storia è molto significativa perché gli adulti sono selezionati subito mentre i più giovani o muoiono di stenti o sfiniti nelle marce della morte. La sorella sopravvive alla marcia ma muore a Belsen Bergen. Al ritorno, nel dicembre del ‘45 – ed è uno degli ultimi – chiede dei fratelli ma scopre che sono tutti morti.
Per ogni nome di campo, ci sono tantissimi sottocampi. Mauthausen viene liberata il 5 maggio e ciò elimina la retorica al 27 gennaio, ricostruita dai sovietici per la grande comunicazione della vittoria.
Piero, durante le marce della morte, è insieme a Sami Modiano e questa è la loro salvezza perché si fanno forza l’uno con l’altro e questo, pur non essendo stato raccontato bene, è importante perchè rappresenta la capacità di resistere attraverso la leggerezza.
Erano due ragazzi di soli 16 anni ma sembravano molto più adulti, vista la situazione. Parlavano di cibo, musica, si raccontavano barzellette per esorcizzare la morte.
Dentro al campo non esistevano pensiero e sofferenza perché la necessità primaria era quella di sopravvivere. Non si soffriva più come gli altri esseri umani ma come animali.
Dopo la fine della guerra, si perdono di vista e Piero finisce in un sanatorio dove lavora per i russi e ritorna quasi dopo un anno di viaggio.
Come ha sottolineato Nicoletta Fasano, è importante il capitolo dei ritorni di cui non si è ancora parlato abbastanza. Piero, comunque, inizia a testimoniare molto tardi e la sua memoria è cambiata nel tempo.
“All’inizio, era già molto disponibile ma, negli ultimi anni, era ancora più attivo. La sua testimonianza è diventata un po’ ripetitiva e schematica per difesa ma, comunque, ha parlato ovunque e con chiunque: per una sola classe ma anche in teatri e stadi per folle di uditori attenti. Per lui si trattava di una sofferenza indicibile ma era anche una linfa vitale. Nell’ultima fase della sua vita, si è accorto della necessità di condividere la sua esperienza. Prima era anestetizzato dal lavoro perché voleva dimostrare di essere stato capace di rendere onore agli insegnamenti della sua famiglia. Già nel 1946, subito dopo essere ritornato, si era impegnato per questo. Successivamente, la testimonianza era diventata un lavoro a tempo pieno. Uno degli snodi più difficili era ricordare le ultime parole del padre che gli diceva di non perdere la dignità, il saluto della mamma e la perdita dei fratelli. Ancora negli anni ‘90 aveva continuato a cercare il fratello Cesare. Si commuoveva e soffriva ricordando queste cose ma il suo era un gesto politico. Diceva: “Mi fa male ma mi fa anche bene testimoniare, faccio quello che posso perché non vengano dimenticati”. Aveva anche accompagnato un ragazzo immigrato che si iscriveva in una scuola italiana ed era stato accolto con grandi onori. Entrando in classe, introducendo il nuovo alunno, aveva chiesto di fargli vedere se avevano capito. Rarissimamente non aveva detto di fare attenzione ai nuovi dittatori. Ha raccontato del porrajmos, parlato dei migranti denunciando la mancata accoglienza. Questo era il significato: non usare la storia per comportarsi meglio nel presente ma per fare qualcosa concretamente”.
Un lavoro diverso rispetto agli altri saggi dell’ autrice che ha sottolineato di non essersi sentita più libera rispetto alla scrittura, non considerandosi una scrittrice.
“Devo molto al prof. Bruno Maida perché desideravo scrivere una cosa diversa dalle altre che avevo fatto ma non sapevo come fare. Volevo raccontare la storia di Piero ma anche riunire tutte le problematiche inerenti riuscendo a trattarle non solo in modo teorico ma concreto. Oggi, considerando solo la storia del testimone, quello che c’è sullo sfondo viene meno. Muovendosi in questa dimensione micro, era possibile ricostruire qualcosa che avesse senso e sentimento ma senza sentimentalismo. Scrivevo, cancellavo… Piero è morto prima dell’ultimo capitolo ma, finchè ha potuto, ci sono state le sue affettuose prese in giro. Il mio scopo era documentare tutto e raccontare di una percezione di se stessi, ad esempio quando Piero vede peggiorare i suoi voti è il segnale che la guerra sta arrivando. Non ho avuto paura di entrare nel privato sia prima che dopo la guerra anche se il libro è stato fortemente voluto da lui. Un’ estate, però, mi aveva raccontato delle cose che si era raccomandato di non mettere. Ero distrutta mentre stavo riscrivendo. Stava morendo e mi sono chiesta dove conservare, dentro di me, quanto mi aveva detto di non condividere. Rispetto al periodo del dopoguerra, nel libro parlo di Piero solo come testimone senza indagare la sua famiglia. Ha vissuto con uno spirito molto combattivo l’avanzata delle destre ma non era un piagnone. Viveva i lati negativi ma anche tutto quello che c’era di buono. Non faceva sconti a nessuno, non era diplomatico… in questo non era democristiano. Però aveva la capacità di combattere il male ma di cogliere anche tante cose buone che nessuno vedeva ed è raro. Ha fatto tante cose importanti anche per questo motivo, ha lasciato un segno nelle persone e, proprio da qui, è arrivata la richiesta del libro” ha detto Elisa Guida.
“Un libro particolarmente bello e indispensabile, capace di farci capire molto della nostra storia” ha concluso Nicoletta Fasano.
Giovanna Cravanzola