Martedì, 18 Maggio 2010 | Scritto da: didattica

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RIPENSARE IL LAVORO – IL LAVORO NELLA FILOSOFIA OCCIDENTALE

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Lo scorso Venerdì 21 Maggio, organizzato dal polo Cittattiva, in collaborazione con il Museo Arti e Mestieri di un tempo, l’incontro sul “vivere la Costituzione nel quotidiano” ha affrontato il 1° articolo: l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. Ne hanno discusso, confrontandosi e provocandosi a vicenda, un filosofo ed un economista: il prof. Alberto Peretti ed il prof. Roberto Burlando.

Basti pensare al ridotto peso del lavoro nella filosofia occidentale, e quanto tempo invece dedichiamo ad esso nell’arco di una vita, per realizzare come questo sia il grande escluso della nostra cultura. Il ruolo del lavoro è stato depauperato, avvilito, per essere ridotto a semplice strumento di vita. In altre parole, quando lavoriamo viviamo? Oppure appendiamo noi stessi fuori dall’ufficio, dall’aula, dall’ambulatorio, per riappropriarci di noi stessi solo dopo il lavoro?

Fin dalla antichità, il pensiero aristotelico vedeva l’attività umana in due diverse prospettive: quella produttiva (poiesis) e quella pratica (praxis). Nella prima l’azione è un mezzo per raggiungere un fine appunto produttivo, ossia è finalizzato al compimento di un prodotto. Nella seconda, invece, l’agire pratico è valido per sè stesso, si compie con l’azione stessa. In una società modellata sulla praxis, non è centrale l’orientamento del lavoro quanto il fare come atto in un sistema autotelico, quindi che trova scopo in sè stesso. (CONTINUA A LEGGERE…)

Dalla modernità in poi il lavoro ha perso i propri caratteri di opera etica per la crescita individuale e della comunità, divenendo un’attività finalizzata al semplice profitto. Lavorare da più di un secolo significa produrre con fatica, e quindi la ricerca del benessere coincide con la ricerca del tempo di non-lavoro: il fine settimana, le ferie, la pensione. A fronte di questa metamorfosi del lavoro, Peretti recupera l’antico concetto di eudaimonia lavorativa, ossia le valenze autoteliche del lavoro: il tempo della buona esistenza e della produzione di noi stessi.

La provocazione del filosofo lascia poi spazio all’analisi dell’economista, il quale cerca di rispondere alle argomentazioni esposte: cosa è che ha senso di per sè, che non muore, che dà sostanza? Che cosa non è un bene di consumo? L’utilitarismo contemporaneo vede sempre più l’affermazione del proprio piacere e il soddisfacimento dei propri desideri, ignorando l’identità e l’integrità dell’individuo in un orizzonte più ampio che vada oltre il dopodomani.

In questo contesto, la terza enciclica di Benedetto XVI incentrata sui temi posti dalla globalizzazione dell’economia diviene un richiamo etico per garantire a tutti un lavoro, anzi un lavoro decente. Riprendendo temi sociali già toccati dalla precendente enciclica, “Caritatis in veritate” rilancia il ruolo del sindacato per la lotta alla precarizzazione: è lecito delocalizzare, ma non per godere di particolari condizioni o peggio per sfruttamento.

Citando il prof. Stefano Zamagni, presidente dell’Agenzia per le Onlus, la modernità ha lasciato in eredità questo convincimento: che per avere titolo di accesso al club dell’economia sia indispensabile mirare al profitto ed essere animati da intenti esclusivamente autointeressati. Quanto a dire che non si è pienamente imprenditori se non si persegue la massimizzazione del profitto. Si può fare impresa anche se si perseguono fini di utilità sociale e si è mossi all’azione da motivazioni di tipo pro-sociale. E’ questo un modo concreto, anche se non l’unico, di colmare il pericoloso divario tra l’economico e il sociale: pericoloso perché un agire economico che non incorporasse al proprio interno la dimensione del sociale non sarebbe eticamente accettabile.

In conclusione, c’è posto per un ripensamento del lavoro nella pratica dell’economia? Oppure questa deve occuparsi solo di efficienza, profitto, competitività, e al massimo di giusta redistribuzione? Ricordiamo le parole di un imprenditore grandemente compianto, quelle di Adriano Olivetti: “Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi fini semplicemente nell’indice dei profitti? O non vi è, al di là del ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, una trama ideale, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?”

Luca Anibaldi

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