Lunedì, 26 Settembre 2011 | Scritto da: didattica

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IL DOVERE DELLA LIBERTÁ

Sabato 8 ottobre il Museo Arti e mestieri di un tempo di Cisterna ha ospitato il 9° incontro filosofico organizzato in collaborazione con il gruppo culturale Oron Oronta e il Polo Cittattiva per l’Astigiano e l’Albese.

Il convegno recava il titolo “Il dovere della libertà. Responsabilità individuale e destino collettivo” ed ha fornito una lettura assolutamente diversa di ciò che questo concetto implica e può implicare. Se si ricerca il termine su un manuale che si occupi di storia del pensiero, per libertà s’intende “in generale, lo stato in cui un soggetto può agire senza costrizioni o impedimenti e, possedendo la capacità di determinarsi secondo un’autonoma scelta, di fini e di mezzi adatti a conseguirli. A seconda del campo in cui la scelta si esercita si può parlare di libertà morale, giuridica, politica, religiosa, economica, di pensiero”.

Una definizione ampia e ristretta allo stesso tempo, perché un titolo tanto impegnativo, come ha sottolineato Giancarlo Tonani nell’introduzione alla giornata, può dar luogo a letture ed interpretazioni personali, diventando una strategia, un qualcosa di paradigmatico. La libertà si attua attraverso scelte limitanti (auto-limitanti ed etero-limitanti), se non si accettano né vogliono limiti, si naviga in un nulla assoluto, come nell’episodio di un celebre cartone animato, i Simpson, in cui Homer, in viaggio su una navicella spaziale, apre un pacchetto di patatine che cominciano a fluttuare nell’aria e slacciatosi le imbracature per afferrarle, sfonda il vetro su cui ci sono delle formiche, trovandosi così a vagare per la galassia; sullo schermo compare allora una scritta emblematica: freedom.

Marcello Furiani ha affrontato l’argomento domandandosi che cosa sia la libertà, se sia identità e quali siano i fraintendimenti, le mistificazioni. In altre parole hanno ancora senso la libertà intesa da Spartaco o quella di Kant o la libertà come emancipazione collettiva? Ha continuato citando un romanzo dello scrittore austriaco Musil “L’uomo senza qualità”, in cui il protagonista è un insieme di qualità senza l’uomo, senza un centro che le unifichi.

L’opera racconta di Ulrich, un uomo ideale che, riassumendo in sé tutte le qualità o le non qualità del secolo appena iniziato, il Novecento, vive privo di reali interessi; questa situazione è descritta come vera e propria malattia della volontà. L’opera afferma l’importanza del senso della possibilità, arrivando a sostenere che nel futuro le azioni si svolgeranno sempre di più nel pensiero piuttosto che “nella vita pratica”. Ulrich si muove in un’odissea rettilinea, quella di Ulisse era circolare e quindi prevedeva un ritorno, le sue qualità non si traducono in capacità di agire, per cui sceglie una vita di ozio contemplativo. Nel romanzo di Musil, si rifiuta l’indicativo a favore del congiuntivo, se esiste la libertà deve esistere anche la possibilità: tutto potrebbe essere diverso. In questa frammentazione, che rappresenta la decadenza europea, all’uomo postumo non resta che una libertà senza sostanza, il mondo avviene come se non ci fosse un centro, se c’è, è un centro vuoto. Elliot diceva che il mondo non finirà con uno schianto, ma con un lamento, un rantolio.

Riprendendo la vicenda di Ulrich, Franco Mattarella ha definito il protagonista un uomo alla ricerca della propria identità. Negli anni della maturità pochi uomini sanno come siano arrivati a se stessi e sentono di poter cambiare poco o nulla, la metafora della carta moschicida serve ad indicare che tutto ciò che lasciamo attaccare ci trasforma e ci appesantisce. Il relatore ha sottolineato che quando si parla di libertà, di solito, si pensa a qualcosa che la minacci dall’esterno, non si pensa mai di essere corresponsabili di queste minacce. Simenon nella “Lettera a al mio giudice” descrive un uomo che compie un assassino e durante il processo di rivolge al giudice: “Siamo quasi uguali, signor giudice. Quasi uguali, già, e non basta trovarsi attualmente ai due lati opposti di un’aula di tribunale, non basta essere, rispettivamente, un magistrato e l’imputato di un processo per annullare le nostre similitudini”. Consapevole che soltanto lui lo può capire, ha paura di sé, prova vertigine e non vuole essere salvato. È mosso da una vaga inquietudine, ha perso la propria libertà senza accorgersene. Lo storico Browing ha recentemente ricostruito quanto si narra del Battaglione 101 che, nel 1942 in Polonia, era stato portato ai margini di un villaggio di ebrei. I cinquecento poliziotti riservisti, tutti appartenenti a ceti medio-bassi, dovevano separare gli uomini adatti a lavorare da donne, anziani e bambini e uccidere questi ultimi, coloro che non si sentivano di farlo, potevano compiere un passo avanti: solo dodici hanno fatto quel passo. Il motivo è che non vogliono uscire dai ranghi, sentono il peso del giudizio dei compagni.

Saba negli anni ’50 ha scritto un breve racconto, “Lo vidi”, in cui descrive la vita di uomo, senza che si capisca bene di chi parli, se non, forse, alla fine. Probabilmente è il protagonista che nella conclusione rivede se stesso con occhi diversi, si rende conto di aver subito gli eventi senza capirli né accettarli. Mattarella ha chiuso con un monito: rischiamo tutti di essere “dei poveri ragazzi qualunque”, a meno che non afferriamo la nostra responsabilità, non dobbiamo delegarla, ma salvarla.

Alberto Banaudi ha esordito affermando di volersi occupare di una libertà “più piccola” e di voler esaminare la nostra condizione: siamo individui in fuga, attraversiamo il mondo con il carapace dei cellulari, di Facebook, delle assicurazioni, delle self-diete e delle self-religioni. Se per gli Antichi libertà era la partecipazione alla vita pubblica, oggi l’agorà si è svuotata; si assiste ad un’erosione della sfera pubblica e, provocatoriamente, ha aggiunto che non si fa politica da vent’anni, si parla d’altro. Se ci fosse un po’ più di coraggio, un po’ più di pensiero, un po’ più voglia di uscire di casa, si potrebbe cambiare la situazione: una piccola liberazione sarebbe la presa di coscienza che, se non ci occupiamo noi di noi stessi sarà qualcun altro a farlo per noi. La libertà è un dovere verso la communitas (comune), ma non ha senso se la communitas si trasforma in immunitas,(obbligo, incarico) in tal caso ci verrà tolto tutto e saremo sudditi.

Leonardo Palilla ha esaminato il testo più celebre di Benjamin Libet, “Mind Time”, nel quale il neofisiologo intende la libertà come libero arbitrio, la consapevolezza del mondo, del nostro corpo e dei nostri pensieri. Nello studio dei fenomeni mentali della coscienza adotta un approccio scientifico-sperimentale e critica perciò la Filosofia della mente perché è una sorta di disciplina di confine che si basa su costruzioni speculative non controllabili. Libet non abbraccia neppure il riduzionismo, uno studio del cervello seppur preciso, non può bastare a spiegare la coscienza; ciò di cui siamo consapevoli ora, secondo la sua teoria, è avvenuto mezzo secondo prima, gli stimoli sensoriali avvengono con un piccolo ritardo, ma ciò significa che viviamo nel passato e la coscienza non è altro che un osservatore. Non c’è mai aderenza perfetta con il mondo circostante, anzi, c’è uno scarto.

Hanno concluso la giornata Gianni Cavallero e Edoardo Angelino, il primo sostenendo che la libertà è negli dei, il secondo tratteggiando il mito della democrazia e la legittimazione del potere dal Medioevo ad oggi. I Greci e i Romani hanno esaltato la libertà del cittadino fornito di pieni diritti politici, non sottomesso, come accadeva invece negli stati assolutistici dell’Oriente, al potere dispotico del re o del tiranno: condizione indegna in una natura umana pienamente realizzata.

La libertà era anche assunta in relazione al concetto di fato, come ordine cosmico predestinato a cui anche gli dei dovevano soggiacere. In questa accezione, l’uomo era libero quando accettava il proprio destino e aderiva alla legge dell’armonia universale.

Anche in questo convegno, gli studiosi che si sono avvicendati, hanno prestato il loro pensiero per arricchire quello dei numerosi partecipanti, che hanno potuto scambiare le proprie impressioni e considerazioni sorseggiando un delizioso the filosofico accompagnato da più prosaiche, ma in egual misura appaganti, paste di meliga.

Elena Cerruti


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