Domenica, 20 Maggio 2012 | Scritto da: didattica

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LA FESTA DELL’APOCALISSE

Il capitolo 21 del Libro dell’Apocalisse si apre con queste parole “Poi vidi un cielo nuovo e una terra nuova, perché il primo cielo e la prima terra erano spariti e il mare non esiste più”; sono parole che veicolano un messaggio di fede e speranza, un messaggio positivo, sicuramente diverso da quanto siamo portati ad associare all’aggettivo apocalittico, che ormai sembra solo denotare qualcosa di disastroso, finale, irrevocabile.

Il decimo incontro del gruppo filosofico Oron Oronta, svoltosi il 26 maggio nel Castello di Cisterna, ha sicuramente scosso gli animi con il suo titolo caleidoscopico, evidenziando il personale atteggiamento di ciascuno di noi di fronte a ciò che cambia in modo irreversibile.

Per i tempi che stiamo vivendo, per l’atmosfera che si respira, per l’ambiente che ci circonda, siamo troppo spesso indotti a temere per il peggio, come se dovesse accadere qualcosa di catastrofico, tale da procurare in noi, per quanto contrastanti, ansia e rassegnazione.

In realtà l’etimologia del termine Apocalisse indica Rivelazione (la stessa parola con cui si apre l’apocalisse biblica), implica togliere da un nascondimento, aprire l’accesso ad una verità non visibile, ma che riguarda tutti. Enzo De Martino sostiene che avviene un’apocalisse ogni volta che crolla un mondo, anche in senso figurato; la storia procede per apocalissi, che sono sempre ed infinite e che,in fondo ognuno ha provato sulla propria pelle: non un punto di arrivo, ma un varco attraverso cui passare per andare oltre.

Secondo lo spirito che ha animato i precedenti incontri, ciascun relatore ha affrontato il tema dell’Apocalisse ricorrendo a parametri e testimonianze solo apparentemente lontane, ma legate da un unico filo conduttore: l’apertura verso un nuovo orizzonte.

Marcello Furiani ha analizzato due opere emblematiche la “Terra desolata” (The Waste Land) di T.S.Eliot e “L’altra parte ”(Die andere Seite – 1909) di Alfred Kubin. Entrambi lasciano trapelare un paesaggio devastato, decadente, soprattutto la città di Perla in cui si svolge la vicenda del romanzo di Kubin. È una città costituita da un ammasso di ruderi, oggetti desueti ed arretrati accumulati dal dittatore Patera. Massimo Cacciari, ha definito Kubin più che profeta del tramonto, profeta di catastrofi; colui che, spezzando gli ultimi residui di significato nei simboli del quotidiano concordemente accettati, vanifica qualsiasi visione pacificata del mondo, ne rivela l’inferno conflittuale e la putrefazione dei suoi valori. Terra desolata significa anche terra ferita, la fine di un’epoca. Quando tutto appare distrutto, rimangono dettagli, frammenti che ci invitano e ci insegnano a resistere, sono luoghi di dolore, che celano anche bellezza, fratture attraverso cui scorgere l’universale e che spronano a ricominciare.

Giancarlo Tonani ha iniziato una serie di considerazioni riprendendo in parte un verso da “Illuminazioni” di Rimbaud “ogni apocalisse collocò un pianoforte sulle Alpi”, la vita vibra intorno alla perdita di significato delle cose, il mondo si libera dalla pretesa di descrivere, interpretare, classificare e come se si pulisse e rimanesse soltanto ciò che è lindo, ingenuo e bello. A conclusione è stata descritta l’ultima scena del film Melancholya, in cui i tre protagonisti si proteggono sotto un rifugio costituito da pochi rametti, che per il bimbo rappresentano un gioco, per la ragazza un’attesa. La vita viene a caricarsi di un significato ulteriore e la ragazza sembra dispiacersi di non saperla amare abbastanza. Forse anche noi, dopo la nostra personale apocalisse dovremmo apprezzarla di più e non limitarci ad attendere.

Franco Mattarella ha citato Ernesto De Martino, secondo cui vi sono due tipi di apocalissi: quelle culturali e quella psicopatologiche; le prime sono transitorie , critiche, ricostituiscono un mondo nuovo abbandonando quello vecchio, ne è un esempio la grave crisi del protagonista adolescente de “La disubbidienza” di Moravia. Quando tutto perde di senso c’è una festa o la schizofrenia, De Martino racconta del delirio di un contadino, un ragazzo di 23 anni, che subisce un crollo quando scopre che il padre ha tagliato una quercia, caso che rientra nelle apocalissi patologiche.

Ai dottori che domandano al giovane il perché di questo crollo risponde che gli uomini non sono al giusto posto, né le case, né gli alberi. Il mondo si è rimpicciolito, appiattito, tornerà ad andar bene quando gli uomini avranno trovato le loro cose e ciò avverrà quando lui avrà ritrovato il suo mondo familiare. Il taglio dell’albero ha rappresentato uno sconvolgimento del suo mondo psichico, causandone la malattia. L’apocalisse dello schizofrenico è senza salvezza, perché guardando al suo passato scorge solo l’origine del suo dramma, incapace di andare oltre.

Occorre ricordare le parole di Camus, che ammonisce a “stare sempre in cammino”.

Alberto Banaudi nel suo Apocalypse fast food ha colto quanto l’abitudine del mangiare veloce, del fast food appunto, rappresenti molto di più, un cambiamento continuo che simboleggia le nostre infinite possibilità. Ha esordito citando il sottotitolo della sua riflessione: “Apocalittica della Ragion Pura”, il nesso con la celebre opera del filosofo Kant è evidente e serve a riconoscere che al giorno d’oggi pensiamo con categorie diverse. Il tempo si è atomizzato, il futuro si è frantumato in tanti atomi di presente, lo scorrere del tempo non avviene più secondo una linea retta, ma per salti. Non c’è più un punto fisso, l’accidente ha prevalso sulla sostanza. Invece della modalità non resta che la possibilità, qualsiasi punto è possibile purché consenta di muoversi verso altri punti. Scomparsa l’unità rimane la pluralità e per Nietzsche il superuomo sarà colui che riuscirà a creare equilibri provvisori tra le varie forze contrastanti. Non possiamo contare su miti duraturi e per un certo verso rassicuranti, ma ne sorgono sempre nuovi destinati a declinare per lasciare il posto ad altri. La felicità non è più raggiungere un traguardo, ma essere continuamente in movimento. In queste condizioni, accettare un universo unico ed univoco significherebbe seppellirci, il nostro universo è tale non perché gli altri siano abortiti, ma perché siamo caduti su questa faccia del dado, un dado con infinite facce. Questa apocalittica della Ragion Pura dovrà essere seguita da un’apocalittica della Ragion Pratica (anche qui si fa riferimento alla celebre opera kantiana), forse con nuovi postulati che fondino una nuova vita morale.

Francesco Capra ha interpretato l’apocalisse a partire da quella personale vissuta dallo psicoanalista Carl Gustav Jung e di cui è testimonianza il “Liber novus ” o “Libro rosso” (così chiamato per la rilegatura di un rosso vivido, intenso). La rottura con Freud risale circa agli anni venti del secolo scorso, è una rottura definitiva, totale, Jung rimasto solo, nei seminari del 1925 si domanda cos’abbia realizzato, cos’abbia fatto rispetto al suo mito personale; la risposta è nulla: è consapevole di conoscere altri miti ma non il proprio. Il “Libro rosso” raccoglie ed esprime le inquietudini di questo periodo particolare nella vita dell’autore, anche attraverso immagini che ne costellano le pagine e che sono rappresentazione del suo inconscio. Dopo una serie di visioni talmente realistiche e premonitrici da indurlo forse a ricercarne un senso con la scrittura, aveva iniziato ad annotare ciò che accadeva dentro di sé, registrandone le conseguenze, analizzando il processo e la nascita di nuovi pensieri. Jung lavorò al Libro rosso che incarna il suo «viaggio di esplorazione verso l’altro polo del mondo» per oltre sedici anni, dal 1913 al 1930 e ancora in tardissima età lo definì una sorta di presagio numinoso, l’opera di fondazione in cui aveva deposto il nucleo vitale e di pensiero della sua futura attività scientifica. Nondimeno, non volle mai autorizzarne la pubblicazione, e dopo di lui anche gli eredi si attennero alla consegna, tanto che è stato custodito in una banca svizzera fino a pochi anni fa. Quella che Jung chiamerà più tardi «immaginazione attiva» è appunto lo strumento inedito di cui egli si servì, nel corso della sua «discesa agli inferi», per suscitare i contenuti archetipici della psiche e oggettivarli attraverso il dialogo interiore, la scrittura, la pittura. Le pagine, miniate come quelle di un testo medievale, tanto da renderlo a tutti gli effetti un libro d’arte, dimostrano come dall’inconscio emerga qualcosa a cui la coscienza ha fatto spazio, eliminando ciò che la occupava in precedenza. Nell’ultima immagine si ammira l’unione di coscienza ed inconscio, la volontà accoglie ciò che spontaneamente è emerso. Si può concludere che l’apocalisse per Jung è stata prima distruzione ed infine rinascita.

Gli ultimi due spunti alla riflessione sono venuti da Gianni Cavallero con “Naufragium feci, bene navigavi” ed Edoardo Angelino “quando la festa diventa apocalisse: il carnevale di Romans”, che ha rievocato l’evento del mese di febbraio del 1580 quando la città del Delfinato fu al centro di una delle tante rivolte popolari che colpirono la Francia tra metà Cinquecento e Seicento. Precisamente il 2 febbraio, giorno della Candelora, gli artigiani di Romans, guidati da Serve Paumier aprirono le ostilità scendendo nelle strade nelle tradizionali sfilate carnevalesche. La città per dieci giorni ha visto le sue strade divise tra il carnevale eversivo di Paumier e quello reazionario dei notabili, in uno psicodramma, i cui attori hanno recitato e danzato la loro rivolta.

Sicuramente questo incontro filosofico ha segnato un punto di svolta, oserei dire un’apocalisse, manifestazione della vita attraverso la vita.

Elena Cerruti

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