Quella delle api è una società ordinata, un esempio di organizzazione tra le più ammirevoli, in cui tutti i membri hanno una funzione ben precisa, importantissima per la vita della comunità.
Melia, però, era un’eccezione: ella era un’ape operaia molto giovane, ingenua, spensierata e molto sognatrice; il suo più grande desiderio era sempre stato quello di viaggiare, scoprire il mondo e un giorno, magari, raggiungere Malta, “la patria del miele”. Era però derisa molto spesso dalle compagne, molto più abili di lei, e criticata e richiamata dalle più anziane. dato che molto spesso non completava il suo lavoro quotidiano e monotono di pulizia delle cellette dell’alveare. Era solita appoggiarsi ad una parete di una cella e guardare gli spazi minimi della struttura dell’alveare che permettevano la visione del cielo azzurro: ella immaginava che dietro all’orizzonte di quel blu si nascondesse un mondo straordinario, libero, misterioso ed incredibilmente diverso da quel rigore seccante dell’alveare.
Melia, per questo, era il simbolo delle api appena nate poiché venivano incuriosite e affascinate dai suoi sogni, dai suoi progetti e dalle sue storie e leggende riguardo all’importanza della civiltà delle api in Egitto e in Grecia in cui grazie ai primi segni di apicoltura si ricavavano il miele e la bevanda dell’idromele.
In tutte le situazioni ed in tutti i diversi compiti Melia costituiva l’eccezione dalla casta delle api operaie:non aveva mai partecipato alla strage dei fuchi, né all’assistenza alla regina durante la deposizione delle uova poiché considerava tutto ciò solamente mezzi per migliorare la posizione lavorativa, ma ciò non era vero: queste sono funzioni vitali per la continuazione della colonia.
Annoiata di questa monotona vita e di essere un semplice atomo che compone un’immensa società, uscì dall’alveare accompagnata da alcune giovanissime api senza il permesso, ma questo comportò un’importante conseguenza: fu richiamata dalla Regina in persona e le fu proibito per sempre di uscire dall’alveare. Annoiata e contraria a questa condizione, con l’aiuto di di alcune apine, elaborò un piano per fuggire. Ella, infatti, approfittò della confusione creata del volo nuziale per avviarsi verso l’uscita; durante questo percorso notò un fuco che stava appollaiato dietro ad un ammasso di cera e Melia si stupì e si avvicinò: questi le disse di non farsi notare perché si stava nascondendo da tutti gli altri membri maschi in quanto non voleva compiere il suo dovere di fecondare la regina. Ella subito dopo scoprì che anche lui era desideroso di fuggire da quel mondo così severo, ma che era poco sicuro farlo, così se ne andò trascurando la possibilità e trascurando il fatto che alcuni giorni dopo sarebbe finita la sua vita in quanto essere ormai inutile, durante il “fuchicidio”.
Quando si accertò che nella zona non ci fosse più nessuno, uscì , finalmente, e attraversando tutto il bosco, saltellando da un fiore all’altro, arrivò nel punto in cui gli alti arbusti finivano e si apriva davanti a lei una distesa di luci, strade asfaltate, “strani alveari rettangolari”: doveva essere quello che da tanto tempo desiderava visitare , quello di cui le più anziane e sagge api raccontavano: il mondo umano.
Entusiasta, incominciò a percorrere le vie del paese, illuminate da alcune luci che riscaldavano in modo eccessivo le tenere ali. Quando iniziò a sentire che queste si appesantivano dalla fatica si distese stanca, ma piena di felicità. Immediatamente si spaventò: sentì una voce tremolante e qualcosa spostarsi nell’ombra, quando capì che esso era una formica che le chiedeva aiuto, in quanto era stata calpestata. Infatti mancava di una zampa, mentre l’addome era lacerato. Melia non aveva mai visto niente di simile e credendo che l’insetto fosse pazzo o pericolosamente malato se ne andò velocemente, confusa. Credeva che in questo mondo fosse tutto perfetto, ma presto si rassicurò pensando che in ogni cosa c’è un’eccezione, come la formava lei nel suo alveare. Così, nuovamente tranquilla e soddisfatta, si posò su un’aiuola intorno ad una fontana e si addormentò pensando agli avvenimenti straordinari che le erano capitati in un solo giorno.
La mattina seguente si svegliò tra i rumori assordanti , l’odore di fumo e di smog provocato da enormi strutture colorate che si muovevano velocemente provocando spostamenti d’aria pericolosi: Melia scoprì per la prima volta il lato caotico e confusionario del mondo umano e, mentendo a se stessa, lo ritenne più bello e libero rispetto al suo mondo di origine.
Per la prima volta vide anche gli umani, dei giganti, proprio come li aveva descritti Flora, un’ape anziana, l’unica che nell’alveare le aveva dato fiducia e l’aveva accudita come una madre. Lasciando da parte il dolce pensiero di quell’ape, iniziò a piegare le ali per inseguire quelle velocissime strutture che, come aquile, percorrevano velocissime le vie; non ebbe, però, il tempo di alzarsi in un volo completo che una grossa palla di carta la colpì. Tra le pieghe di questo ingombrante rifiuto si poteva notare una pubblicità della città, con grandi aiuole, molta tranquillità e due umani che camminavano con un sorriso falso e beffardo. Ora incominciava a capire i racconti delle api anziane, le quali consigliavano, quasi come un obbligo, di non cercare mai il mondo degli umani e, anzi, fuggirne. Melia, colpita, rimase a terra, provando tanto dolore alle ali: ad un tratto si ricordò della formica, dalla quale era fuggita egoisticamente. Per non averla soccorsa si sentì in colpa, abituata ed obbligata nel suo alveare ad una perfetta collaborazione ed a un reciproco aiuto, infatti se lo avesse scoperto la Regina, pensò, l’avrebbe punita.
Dopo alcuni minuti, un’eternità per la sorte di una semplice ape, si rialzò, decisa a continuare quel percorso alla scoperta del mondo umano, convincendosi, ancora una volta, che quello che era capitato a lei e alla formica fosse solo stato un raro incidente.
Schivando gli umani, che non badarono all’ape come se non esistesse, arrivò nella zona più verde della città: facendo questo breve percorso notò che la maggioranza di quei giganti non si era accorta della sua presenza, molti agitarono la mano come per scacciarla ed alcuni addirittura perfino per ucciderla, mentre solo una minima parte di bambini molto piccoli la indicò, spalancando la bocca, curiosi e stupefatti come se non avessero mai visto un’ape.
Raggiungendo un praticello ricco di tulipani, si posò su una margherita: in questo luogo si sentiva quasi nel suo bosco. Questa sensazione di tranquillità, però, scomparve quando vide un gruppo di ragazzi che rincorrendo un inutile pallone, calpestavano delle tenere erbette e dei fiori profumati. Questi erano seguiti da una ragazzina, accompagnata dalla madre, che catturava delle farfalle con un retino che le intrappolava e, come se non bastasse, l’adulta la invitava ad osservarle e così, la bimba analizzava ciascuna delle vittime, afferrandole per un’ala. Quando ciascuna farfalla smetteva di agitarsi e di sbattere le ali, l’umana la buttava per terra con disprezzo. Melia avrebbe voluto intervenire, ma sapeva che gli sarebbe costata la vita.
Finalmente si accorse che razza di mondo era questo: un mondo privo di valori, di rispetto verso la natura, caotico, senza organizzazione, completamente opposto alla società delle api, rigorosa, coordinata e ordinata.
Scoperta la vera realtà provò nostalgia della sua casa, l’alveare: in fondo capì che lei non era fatta per quel mondo, ma per uno più rispettoso e più puro, in cui si ama la natura e in fondo si vuole bene anche a lei, una ingenua e pasticciona ape operaia. Per questo decise di ritornare in colonia, scusarsi ed accettare quella vita che fino ad ora l’aveva fatta sperare in un mondo più libero, che in realtà non esiste, capì che il suo mondo è migliore di qualsiasi altro, mentre quello tanto sognato sarebbe rimasto sempre una speranza.
Era sera e sulla via del ritorno si poggiò su un ramo, ma appena vide l’ultimo degli orrori commessi dagli umani se ne andò immediatamente: due uomini stavano picchiando una bambina, che urlava con una voce fine, come l’urlo che stava facendo la natura di fronte a quella società degradata. Si stupì, rabbrividendo: nell’alveare i fuchi, cioè i maschi, vengono uccisi per permettere la continuità della colonia, per sopravvivere. In questo caso erano gli uomini che stavano facendo del male alla ragazza solo per cattiveria e crudeltà. Si accorse che nella natura un animale uccide solamente per vivere, per difesa, per sopravvivenza, mentre l’uomo uccide per un capriccio, per cattiveria.
Aggiunse un altro aspetto negativo a quella società troppo libera: quello dell’ipocrisia e della cattiveria… ed infatti è vero che nel nostro mondo regna il male, la cattiveria, la guerra e la venerazione per l’apparenza. Dovremmo essere invidiosi, e imparare dall’organizzazione naturale, specialmente da quella delle api.
Fuggì da quel luogo.
Ritornò alla colonia, ricominciò il suo monotono, ma appagante lavoro, ferreo, rigido e dopo quella fuga incominciò a raccontare alle apine di una società distaccata e permissiva: quella umana.
Scuola secondaria di I grado